Siamo a New York, tra Central Park e il Rockfeller Center. Per la precisione, al Museum Of Modern Art, più comunemente noto con l’acronimo MoMA, uno dei musei più famosi al mondo. Capace di accogliere più di 60 milioni di visitatori l’anno, il MoMA espone alcune tra le opere più prestigiose del mercato artistico internazionale, vantando un’influenza impareggiabile non solo sulla società e sull’opinione pubblica, ma addirittura sulla politica.
Sean Anderson, dal 2015 curatore associato del dipartimento di architettura e design del museo, ha deciso di utilizzarlo come cassa di risonanza per la sua mostra Insecurities: tracing displacement and shelter, in corso fino al 22 gennaio 2017. Le insicurezze raccontate sono le vite precarie di oltre 65 milioni di profughi, i protagonisti di una crisi che sta mettendo a dura prova le istituzioni nazionali e gli organi sovranazionali.

La teoria di fondo è rendere il Museum of Modern Art un advocate, ovvero sostenitore di una causa. Missione tanto nobile quanto complicata: il museo ha regole rigide e i suoi visitatori non hanno la reale percezione (dovuta alla lontananza geografica e informativa) di cosa accade nel Mediterraneo. Anderson, però, non si è dato per vinto: ha tappezzato il suo ufficio di fotografie di scuole di bambù, preparato installazioni e video che scuotessero le coscienze e che facessero sorgere i dubbi e curiosità nei presenti.
Perplessità come quella che ha dato l’ispirazione a Anderson:
Per le soluzioni d’emergenza è di vitale importanza considerare i dati delle Nazioni Unite: in media un profugo resta nei campi di prima accoglienza per 17 anni. È inimmaginabile vivere così a lungo in un modulo Ikea di 17 metri quadri. La sua plastica leggera è altamente infiammabile e si scoperchia facilmente.
Eppure, nonostante la denuncia dei tecnici del comune di Zurigo, in Medio Oriente e nei Balcani continuano a montarli. La Svizzera si preparava ad accogliere 250 profughi entro il 31 gennaio 2016, ma è stata costretta ad annullare gli ordini dei moduli.
Uno di questi è approdato nelle sale del MoMA a titolo esemplificativo di ciò che potrebbe essere considerato il miglior tentativo di accoglienza o la cattiva coscienza di chi non intuisce il significato dell’apolidia.
Inoltre, una parete ospita il Woven chronicle, un pannello dei viaggi migratori: gli spostamenti sono rappresentati dai fili elettrici che tagliano il mappamondo in tutte le direzioni. Sentieri che rappresentano la via per proto-città precarie. Avvicinandosi si sentono vari rumori: la risacca, i cellulari, i riverberi delle telecomunicazioni, i suoni delle imbarcazioni lontane. L’effetto complessivo è un tappeto sonoro di angoscia, solo una vaga idea di quella che attanaglia lo stomaco dei rifugiati.

E, inevitabilmente, sorge la domanda “Come nazione e individui, abbiamo l’obbligo morale di accogliere e proteggere chi scappa dalle proprie case per la guerra?”. La risposta viene spontanea dalla reazione del visitatore: Anderson ha concepito l’architettura e il design della mostra come una cartina tornasole dell’identità e dell’umanità.
Certamente la maestria di Anderson permetterà di penetrare nel cuore di molti visitatori e instillare anche un solo piccolo dubbio. Un piccolo passo verso la presa una coscienza.