Sono le ore 17:00 di un normale mercoledì di novembre, Milano respira una sofisticata atmosfera frenetica abbinata alla foschia che non rende giustizia alla modernità che visita. Tra le mura di un edificio abitato da centinaia di studenti conosciuto nel mondo come Università Bocconi, una donna con le idee chiare e tanta voglia di descrivere il dono della vita, o di come lei la concepisce, sta per ricevere un premio importante per questo ateneo. Il Dante d’oro, conferito dall’associazione studentesca Bocconi d’inchiostro, seppur di premi ne ha conquistati tanti, inutile finanche menzionarli, ma la popolarità, non l’ha contaminata o trasformata. Caratteristica intrinseca che esibisce con grazia e disinvoltura come il prestigio della conoscenza.
Nata sotto il nome di Michela Murgia, scrittrice di spicco del panorama italiano contemporaneo, per noi donatrice di un sapere unico, ove le domande diventano risposte e le risposte si spostano nella dimensione dell’apprendere spontaneo e curioso. Affrontando tematiche attuali come la situazione di precarietà che affligge il nostro Paese, valicando le soglie di racconti autobiografici fino alla figura della mono genitorialità che può essere disastrosa, abbiamo viaggiato tramite i binari di un unico treno, quello della sua vita. Questo e molto altro, tra empatia e sensibilità, abito migliore di Michela Murgia.
All’interno de “Il mondo deve sapere”, suo primo libro parla del ricatto dei contratti a progetto, del precariato nei call center, inteso come luogo simbolo di questa avvilente situazione esistenziale; cos’è per lei il precariato, se dovesse darne una definizione?
“Il mondo deve sapere” è un libro uscito undici anni fa ed io lo sento molto invecchiato oltre a percepire che la situazione descritta è molto mutata, purtroppo in peggio, per cui se dieci anni fa il luogo paradigmatico della precarietà era il call center oggi è lo studio dell’avvocato, la casa editrice, quelli che erano considerati contratti limite per professioni poco qualificate come l’operatore di call center oggi vengono applicati anche a professioni molto specializzate o persino socialmente prestigiose. Infatti c’è un calo delle retribuzioni generali per chi oggi si avvicina al mondo del lavoro del 30%, i giovani architetti che iniziano a fare praticantato, i giovani ingegneri. Non è il precariato il problema, il problema è legare i diritti alla condizione contrattuale. Quando non c’è un mercato flessibile e le persone perdono da un giorno all’altro il lavoro non possono perdere automaticamente anche i diritti soltanto perché lo Stato non può sostenere un tipo di deficit di quel livello; è molto interessante invece osservare come altri Paesi hanno deciso che i diritti devono essere staccati dalla condizione lavorativa, può non essere popolare parlare di reddito di cittadinanza ma questo impedisce alle persone che perdono il lavoro di finire nella fascia della povertà estrema. Noi italiani non riusciamo a uscire dall’ottica che se non hai un lavoro fisso non hai neanche diritti fissi e senza i diritti siamo tutti precari. Anche quelli che hanno un lavoro e pensano di essere al sicuro, domani potrebbero perderlo.
“Chirù” è invece una storia d’amore, se così si può definire, ma soprattutto di apprendimento. Cosa l’ha ispirata? Inoltre, Chirù ha un profilo Facebook, pur essendo un personaggio inventato ha tanti followers, quindi definibile come un ragazzo dei nostri giorni. Esiste nella realtà Chirù?
Parto dal concetto che non esiste per me formazione senza relazione. E’ una storia in parte autobiografia, sogno e spero di realizzarlo prima o poi, aprire una scuola e dedicarmi agli altri, cosa che io ho sperimentato come un Chirù perché sono stata presa da una famiglia che mi ha garantito uno sguardo differente e che la mia famiglia d’origine avrebbe potuto darmi, allo stesso tempo nella vita ho replicato questa esperienza per cinque volte quindi, sì, sono ragazzi che esistono. Raccontarle sembra strano perché siamo talmente abituati a pensare che di mamma ce ne sia una sola che scarichiamo sulle madri il compito immane di essere l’unico riferimento della crescita di un’altra persona. In ogni caso la figura monogenitoriale è drammatica perché se ti capita quella sbagliata sei segnato per tutta la vita, bisognerebbe essere padre o madre tante volte quante il ragazzo o la ragazza possono essere figli e figlie. Io ero figlia in molti modi, mia madre alcuni li intercettava e altri no. Ho avuto la fortuna che lei abbia saputo far spazio a un’altra donna nella mia vita.
Cosa nutre la sua scrittura? Si può definire portatrice nel mondo della tradizione narrativa sarda?
No, non mi sento portatrice di niente. Fortunatamente siamo in tanti, ognuno ha una vocema siamo una comunità narrante di cui sono felice di far parte. Ciò che nutre la mia scrittura è il dolore, il fastidio, la scomodità. Quando sto bene e attraverso periodi tranquilli non scrivo, cucino. In situazioni di impotenza invece accade, quando l’unica differenza che posso fare è osservare e raccontare. Il mio esordio nasce così, “Il mondo deve sapere”, mi trovavo in un call center non potevo modificare in nulla la mia situazione e allora ho scelto di raccontarla. La scrittura per me è spesso l’estremo atto di resistenza che rimane quindi se per molto tempo non scrivo chi mi conosce sa che di solito sto attraversando un buon periodo.
Foto di copertina: credit to Bocconi d’Inchiostro