Ma non è tutto. A suonare il campanello d’allarme, come rivelano le 43 pagine del report, è stato l’improvviso boom del mercato della produzione e della vendita di strumenti utilizzati per somministrare dolore alle persone. Un business in forte crescita (si parla di un incremento del 364% negli ultimi dieci anni) che si intrinseca inevitabilmente con le continue accuse di violazioni dei diritti umani in Asia e Africa.
Sì, perché se la Cina è il primo Paese al mondo nella produzione e nell’esportazione di questo riprovevole genere di articoli, il commercio vero e proprio avviene al di fuori dei confini nazionali del Paese del Dragone. Cambogia, Thailandia, Nepal, Egitto, Senegal, Madagascar e Ghana sono tra i principali clienti. Come testimonia il bilancio della Cina Xinxing Import/Export, una delle 130 aziende del settore presente sul territorio cinese, il commercio con l’estero è il fulcro dell’indomabile giro di denaro messo in moto da questo genere di affari: sono circa 100 i milioni di dollari provenienti dalle casse dai Paesi africani, nella compravendita di armi utilizzate per infliggere dolore ad altri esseri umani.
Il catalogo è molto ampio: la scelta dell’acquirente può variare dai manganelli elettrici ai bastoni acuminati, passando per gas lacrimogeni e pallottole di plastica. Patrick Wilcken, uno dei ricercatori di Amnesty che ha contribuito alla stesura del rapporto, imputa la colpa dello sviluppo di un business simile alle autorità cinesi, incapaci di contrastare l’esportazione e il commercio di questi oggetti e di impedire che apparecchiature normalmente in dotazione alle Forze dell’Ordine possano finire nelle mani di chi viola sistematicamente i diritti umani.