Continuo a credere che la situazione economica attuale sia ampiamente fraintesa, utilizzerò le parole scritte da J.M. Keynes nel 1928 a Cambridge per spiegarmi: “il pessimismo dei rivoluzionari, convinti che una situazione così compromessa renda inevitabile un cambiamento radicale, e quello dei reazionari persuasi che la nostra vita economica e sociale si regga su un equilibrio talmente instabile da sconsigliare qualsiasi forma di esperimento”.
Come non riconoscere in queste parole il “sentimento economico” attuale di sconforto, che ritengo rappresenterà la più grande sfida che dovremo affrontare prossimamente attraverso cambiamenti profondi e anche rapidi. Non fa certamente eccezione la situazione italiana colpita da una triplice crisi: una crisi bancaria, una crisi delle finanze statali e una crisi dell’economia reale. Il mondo non è più lo stesso dopo gli eventi finanziari del 2008.
In primo luogo la crisi bancaria: troppe banche avevano concesso troppo credito sia pubblico che privato, e una parte di quel credito si è trasformato in “spazzatura”, obbligando le banche ad aumentare il loro patrimonio, altre sono “di fatto” fallite. Fare stime e congetture sulle somme necessarie per ricapitalizzare il settore finanziario-bancario è difficile ma un aspetto è certo, la ristrutturazione del settore finanziario è solamente all’inizio. In secondo luogo la crisi finanziaria come risultato di deficit accumulati dal bilancio pubblico che hanno comportato, in Italia, un andamento del debito pubblico come è riportato dalla tabella di Mazziero Research (società di analisi indipendente www.mazzieroresearch.com ).
Per coloro che, come me, sono stanchi di sentire dati economici parziali usati da vari commentatori per supportare le loro tesi, consiglio di farsi una lettura dell’Osservatorio del team della Mazziero Research per avere una visione completa e indipendente della situazione reale dell’economica italiana.
Ora continuiamo nel nostro racconto dopo aver sorseggiato, per riprenderci dai numeri, una Coca Cola ghiacciata al punto giusto. Le autorità europee, per recuperare la fiducia dei mercati, hanno stabilito dure regole di risparmio sino ad arrivare al divieto di nuovo indebitamento da parte dello Stato. Tutto ciò non è servito per la crescita, ad uscire definitivamente dalla depressione e nemmeno a risolvere la crisi bancaria. L’austerità non sostiene la crescita dell’economia, unico fattore che favorirebbe l’abbattimento del debito pubblico.
Infine la crisi dell’economia reale, con un tasso di disoccupazione che si è ridotto di poco ma che viaggia al 9,5%, ma soprattutto con una disoccupazione giovanile al 31%, basterebbero questi dati per capire in quale stagnazione economica si trovi la nostra economia, oramai da troppo tempo.
Come illustri economisti ci ricordano le tre crisi aggravano la situazione essendo connesse tra loro, sono come “le patatine una attira l’altra”: la crisi delle banche e la crisi dello stato sono connesse attraverso il denaro, mentre la crisi dell’economia reale e la crisi bancaria sono connesse attraverso il credito, infine le crisi delle finanze statali e dell’economia reale lo sono attraverso il meccanismo delle uscite e delle entrate dello stato.
Come vedete la situazione si complica e si aggrava per le varie interconnessioni. Allora dovremmo porci le domande “come e perché siamo entrati in questo circolo vizioso? La domanda è complessa, tuttavia la risposta è semplice anche se non semplicistica: troppe tasse e pochi investimenti.
Cerco di spiegarmi meglio: le tasse (entrate) possono essere anche alte (vedi paesi del nord Europa) ma bisogna spenderle per investimenti produttivi e di formazione, mentre i governi italiani che si sono succeduti nella storia recente hanno utilizzato quel denaro trasformandolo in inflazione (anni ‘70), indebitamento pubblico (’80-’90), espansione del credito privato (anni 2000) e infine acquisto del debito di stato e banche da parte delle Banca Centrale Europea (QE) con lo scopo di guadagnare tempo e disinnescare conflitti sociali, molte volte più realisticamente per “comprare” consenso.
La soluzione dunque potrebbe essere a portata di mano: stop “buying time” e avviare una politica di investimenti pubblici. Tutto ciò si traduce in un abbandono del fiscal compact, non preoccupandoci del “numerino” Deficit/Pil che non ci dice nulla sulle possibilità economiche che avranno i nostri nipoti (libricino che vi consiglio di John Maynard Keynes – Adelphi) . La vera sfida non è dividere la torta ma aumentare la torta, è uscire dal pessimismo dei rivoluzionari e dei reazionari. Questa non è una crisi per vecchi economisti e nemmeno per politici che non respirano “lo spirito del tempo”.