Fare musica senza prendersi troppo sul serio, ma prendendo sul serio la musica, è una coincidenza ormai rara in Italia. Nel mondo discografico (e non solo) luccicano quelle che Guido Gozzano chiamerebbe ‘buone cose di cattivo gusto’; in termini più attuali, il trash allo stato brado: i prodotti borghesucci dei talent show, ad esempio, dove si riciclano pseudocantanti con la carta carbone, dove guru ipertatuati sbrodolano rime fatte con l’uncinetto della loro bisnonna per un pugno di applausi, dove celebrities da museo delle cere e suore da palcoscenico descrivono i confini dell’arte.
La musica vera, però, non nasce da logiche di mercato, ma dal bisogno intimo e bruciante di esprimere la percezione di un contrasto, di una smagliatura nella realtà che non si riesce a spiegare, che si comprende ma non si accetta, o che, semplicemente, si vuole raccontare in un certo modo. I ragazzi elettropop de Lo Stato Sociale fanno musica vera, incendiano le piazze con una piromania inedita che rimescola le carte della musica italiana: parole nuove e vibranti contro la rassegnazione, l’ipocrisia e (soprattutto) l’assenza di cattive cose di buon gusto.
Il gruppo, nonostante la sbandierata idiosincrasia per Internet, ha saputo creare un rapporto simbiotico con il proprio pubblico, con i live, i videoclip, e con la pagina Facebook, partecipando alle attività del fanclub anche attraverso il blog visitabile su ilfattoquotidiano.it.
L’Italia peggiore – album uscito l’anno scorso e le cui royalties sono state devolute a Emergency – affronta con autoironia e senza retorica questioni sociali gravi – come la non cultura, la non giustizia e il menefreghismo – tipiche del paese dei balocchi.
Sulla nostra testa spuntano orecchie d’asino (o da coniglio) mentre ascoltiamo i versi di Questo è un grande paese, la hit scritta in collaborazione con Piotta: ‘L’Italia è una repubblica fondata sulla Germania; vecchi che guardano lavori in corso, giovani che guardano siti in manutenzione; i treni sono velocissimi, puoi disoccuparti da Milano a Roma in meno di tre ore; vergognatevi, voi qui a ridere e scherzare mentre là fuori c’è gente che non ha soldi per comprarsi la cover dell’iPhone con le orecchie da coniglio’.
Altre canzoni, come Il sulografo e la principessa ballerina, trascinano in atmosfere psichedeliche iniettate di eros, che scardinano i luoghi comuni, quelli tangibili e quelli sognati: ‘Mi porti lontano, mi porti a guardare il cielo cadere, a bruciare un contratto, a fumare la vertigine sui pali della luce… e capisco che non sono nei buoni, per nulla migliori di una serie televisiva adolescenziale, che il punto non è dire la verità ma dirla male, e allora te lo voglio dire, senza dirla per luogo comune’.
I tecnoprofeti della Silicon valley ormai vedono l’Italia come un dead man walking, ma non dovrebbero ignorare che storicamente la crescita, ‘le magnifiche sorti e progressive’ di un paese, non si sono sempre basate sulle sole forze economiche, ma anche su quelle politico-sociali e, in molti casi, proprio sull’arte.
Se ‘la vita senza la musica sarebbe un errore’, come scrive Friedrich Nietzsche ne Il crepuscolo degli idoli, la musica senza vita è (indicativo, non condizionale) certamente un errore; perché solo quando la musica parte dalla vita e si riempie di vita può salvare dalla depressione, dalla noia, dalla mancanza di bellezza; solo così la musica può dare velocità e speranza, può essere rivolta, e bruciare tutte quelle cose vuote e stantie che per abitudine, opportunismo o pigrizia, continuiamo a giudicare importanti.
Nell’era delle app, della (dis)connessione permanente e della mercificazione istantanea, Lo Stato Sociale propone un anticonformismo attivo, un modo di fare musica indipendente che, almeno in parte, potrebbe portare a un cambiamento in Italia; una musica che fa spuntare orecchie d’asino per poi strapparle, che fa spettacolo con raffinata irriverenza, senza lamentarsi, ma trasformando la rabbia in elettricità e sana partecipazione; una musica che sorride sfacciatamente e, con garbo, uccide la Fata Turchina.