Quello a cui abbiamo assistito dalla grande crisi del 2008 in avanti mi rende sempre più convinto che i modelli economici su cui le nostre generazioni si sono formate, necessitino di una profonda rivisitazione.
Uno dei più conosciuti “assiomi” in politica monetaria recita che nonostante si porti un cavallo all’abbeveratoio, non lo si può obbligare a bere.
Sicuramente un aforisma affascinante che esprime in concetti semplici che l’interventismo monetario potrebbe non garantire risultati concreti ed immediati sull’economia reale.
Tuttavia, una rivisitazione aggiornata di questo pensiero non dovrebbe far gravare la responsabilità del mancato ottenimento del risultato solo sulle spalle dell’animale, per quanto volubile, ma dovrebbe specificare ulteriori condizioni.
Si dovrebbe, per esempio, prendere in considerazione il fatto che davanti al tuo cavallo potrebbero esserci altri animali poco disponibili a condividere l’acqua della fonte, oppure peggio, che l’acqua della fonte sia stata usata ad innaffiare qualche orto nelle vicinanze e quindi ne sia rimasta poca o niente per il tuo cavallo.
Queste sono esattamente le situazioni a cui abbiamo assistito in questi anni, e che hanno lasciato il nostro povero cavallo allo stremo. Le politiche dei bassi tassi di interessi e il QE sono state messe in piedi nella speranza di vedere questo denaro trovare la strada nell’economia reale, ma in realtà la sua principale destinazione è stata l’acquisto di attività finanziarie sempre più rischiose, in un gioco in cui tutti gli investitori hanno alzato il proprio profilo di rischio alla ricerca sempre più spasmodica di rendimento. Queste considerazioni sono avvalorate dai dati relativi alla crescita della leva finanziaria che non è stata certo usata per aumentare la produttività del sistema economico, ma semplicemente per ottimizzare l’efficienza finanziaria dei portafogli.
Mentre il denaro facile delle banche centrali ha mantenuto il sistema finanziario attivo e funzionante evitando una grave catastrofe, la ristrutturazione nell’economia reale non è progredita abbastanza velocemente, portando come conseguenza l’incremento della disuguaglianza tra “chi ha” e “chi non ha” ed aggravando il contesto sociale già teso nelle nostre società occidentali.
Tra l’altro, se negli Stati Uniti il “cavallo” è riuscito a bere poco perché’ si trovava alla fine della catena di acquisti, in Europa le cose sono andate anche peggio, perché le banche stesse essendo sotto capitalizzate, hanno usato per loro tutta l’acqua.
Arrivati a questo punto risulta forse più chiara la ragione per la quale un caposaldo dei testi di macroeconomia e cioè il concetto di “moltiplicatore Keynesiano” ha fatto cilecca. Questo fattore, a livello aggregato, predica che un’unità presa in prestito e spesa (o investita) è suscettibile di generare un aumento superiore all’ unità dell’attività economica totale.
Purtroppo, la messa a terra di questo principio, non trova corrispondenza nei dati forniti dell’istituto delle finanze internazionali (IIF) e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) per gli ultimi dieci anni.
Se il primo infatti ha indicato che il rapporto tra debito globale e PIL nel 2017 si sia attestato al 318%, contro il 278% a fine 2007, i dati del FMI sul PIL nominale per lo stesso periodo, parlano di 80,05 trilioni di dollari nel 2017 contro il 58,11 alla fine del 2007. Possiamo concludere, con la dovuta approssimazione, che un aumento di 22 trilioni di PIL nominale è stato raggiunto nel contesto di un aumento di 71 trilioni di debito. Non avrebbe dovuto essere il contrario? Ma se il “moltiplicatore” ha diviso anziché moltiplicare, (???) l’inesattezza non stà nella formulazione della teoria di Keynes quanto nel suo mancato aggiornamento ad una società già troppo indebitata che continua a guadagnare tempo con una visione di breve termine posticipando il dolore nel lungo termine. Non possiamo però rimproverare Keynes per non aver considerato che in un contesto economico già gravato da una mole enorme di debito, la nuova liquidità sarebbe stata destinata all’onorare gli interessi e i rimborsi del preesistenti, piuttosto che a generare nuova attività economica.