“Un Paese Non E’ Una Azienda”: Le Tariffe Non Servono

paese azienda

Vi segnalo un breve (sessanta pagine) e interessante libro scritto del premio Nobel (2008) per l’economia, Paul Krugman, dallo stesso titolo che ho utilizzato per questo articolo.

Lo scritto affronta un problema complesso in maniera piacevole e semplice. Il libro smonta la convinzione diffusa che un bravo manager o imprenditore, in virtù dei successi ottenuti dalle sue aziende, sia un buon consigliere economico o un ottimo politico cui affidare le sorti di una nazione. La lettura mi ha suggerito di affrontare un tema dove è facile giungere a conclusioni affrettate. Il mio intento è di argomentare in maniera il più semplice possibile il deficit e la conseguente politica delle tariffe introdotto da Trump. Sappiamo tutti che pronunciare la parola “deficit”, riferita alle finanze personali, ha un’accezione negativa, spendiamo più di quanto le nostre entrate ci permetterebbero. Tutto ciò diviene molto più complicato e con intonazione differente quando parliamo di deficit commerciale per una Nazione. La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, iniziata con l’amministrazione Trump, ci conferma quanto sia importante capire le relazioni che regolano il commercio internazionale.

La crescita degli scambi tra nazioni è stata spiegata nel 1817 dall’economista David Ricardo con la “teoria del vantaggio comparato”: tutti stanno meglio, se ciascuno produce i beni e servizi che sanno fare meglio, che al tempo attuale, significa che la Cina produce a un costo inferiore rispetto allo stesso prodotto fatto in America, allora entrambi i paesi hanno un vantaggio.

Prima di trarre facili conclusioni sul tema è bene porci qualche domanda. Iniziamo.

Che cos’è il deficit commerciale di una Nazione ?

Partiamo definendo i termini avvalendoci di qualche semplice relazione.

Il deficit commerciale avviene quando la nazione X acquista più beni e servizi (in termini di valore) dalla nazione Y, rispetto Y acquisti da X. La nazione X (in questo caso gli Stati Uniti) ha un deficit commerciale, mentre la nazione Y (caso della Cina)  ha un surplus commerciale identica a X. A questo punto nella narrazione, non si capisce per quale motivo ci sia così tanta attenzione attorno ai deficit e surplus commerciali, visto che abbiamo capito che ognuno è meglio faccia ciò che sa fare meglio (come riporta un detto popolare: “ognuno faccia il proprio mestiere”)  e inoltre a livello globale i valori economici in campo sono a somma zero.

Ebbene, come ho scritto più volte, l’economia di un Paese è materia complicata, allora è utile “aprire il cofano e dare un’occhiata al motore”.

Per l’appunto eccolo il Prodotto Interno Lordo (PIL) di una nazione, accettato da quasi tutti gli economisti, è definito dalla equazione:

PIL = Consumi + Investimenti + Spese Governative + (Esportazioni – Importazioni),

questa è una relazione contabile e come tale è vera sempre ed ovunque. Per capire bene cosa significa un deficit commerciale bisogna che ci avvaliamo di un’altra relazione, magari meno intuitiva, tuttavia anch’essa contabile e come tale sempre vera, ed eccola:

(Importazioni – Esportazioni) coincidono con (Investimenti – Risparmi) + (Spese Governative – Tasse) .

Il deficit commerciale si evince essere pari all’eccesso d’investimenti nel settore privato meno i risparmi, più, la spesa pubblica meno le tasse. Siamo giunti a capire che il deficit commerciale degli Stati Uniti è l’immagine speculare di ciò che sta accadendo nell’economia nazionale: dal momento che gli americani consumano collettivamente più di quanto producano o investano, l’unico modo per risolvere l’equazione, è importare il consumo in eccesso, in sostanza fare deficit commerciale .

Quando gli americani comprano i prodotti cinesi pagano in dollari, tenetelo bene in memoria perché ci farà capire molto, invece di usare il renminbi cinese. Gli Stati Uniti possono farlo perché il dollaro è riconosciuto come moneta di riserva a livello globale. Fino al 1971 sussisteva la convertibilità del dollaro in oro, in seguito alla guerra del Vietnam, il Presidente Nixon annunciò la non convertibilità del dollaro in oro. Sembrava un momento drammatico per la politica monetaria degli Stati Uniti, invece il dollaro continuò a essere considerato la valuta di riserva, e lo è ancora.

Dopo questa premessa è giunto il momento di avviarci a concludere, tuttavia prima, ci dobbiamo  fare ancora una domanda :

Se il tuo obiettivo è ridurre o eliminare il deficit commerciale (l’idea di Trump), le tariffe sono lo strumento corretto ?

La risposta è negativa, perché le tariffe non influiscono sulle cause sottostanti al deficit. I deficit commerciali dell’America non esistono perché gli americani importano troppo, ma perché gli americani consumano troppo e risparmiano troppo poco (come ci ricorda la relazione precedente).

La soluzione quindi sembrerebbe quella di consumare meno e risparmiare di più. In altre parole avviare una politica economica di recessione. Attenzione però una recessione americana significa problemi ancor maggiori per il resto del mondo. Alla “decrescita felice” pochi credono, e questa soluzione non piace a nessuno; in alternativa il governo potrebbe incoraggiare un cambiamento nello stile di spesa della maggior parte degli americani. Difficile immaginare un americano simile a un giapponese, che ha uno stile di spesa frugale con un’alta propensione a risparmiare invece che consumare. Aspetto ancora più importante, inoltre, il deficit commerciale ha come compensazione uguale e contraria  (relazione di contabilità nazionale sempre vera) un avanzo delle partite correnti .

Questo vale anche a livello individuale: devi riavere i tuoi soldi che hai speso da qualche parte. Nel caso di un Paese (Stati Uniti) significa che gli stranieri devono comprare attività (proprietà immobiliari oppure titoli – azioni), oppure le società americane che hanno investito i propri soldi al di fuori degli Stati Uniti riportino i profitti negli Stati Uniti. Tutto ciò rende il deficit commerciale uguale al surplus delle partite correnti. L’interpretazione del motto di Trump “America First” in campo economico significherebbe produrre in America, ma anche questa soluzione ci porterebbe poche soddisfazioni perché i consumatori americani acquisterebbero di meno, giachè i prodotti costerebbero di più. Ricadremmo nella recessione quindi, in sostanza, il PIL si contrarrebbe e ci sarebbero meno posti di lavoro.

Gestire un deficit commerciale nel caso degli Stati Uniti può comportare degli utili vantaggi sia per loro ma anche per il resto del mondo: gli americani spendono enormi quantità di dollari all’estero per pagare le cose che importano, tuttavia il partner commerciale (Cina) accetta volente o nolente il dollaro (ricordate), che userà per comprare Buoni del Tesoro, immobili o azioni americane. Il flusso dei dollari in uscita ritorna negli Stati Uniti.

Il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti si finanzia a tassi più bassi di quanto avrebbe potuto fare altrimenti. In sostanza il deficit commerciale sovvenziona il debito pubblico, forse troppo alto, ma questa è una storia diversa.

Quindi, in conclusione, i deficit commerciali non sono necessariamente negativi, tuttavia dipende dalle circostanze: il deficit commerciale americano con la Cina è utile, invece il deficit commerciale della Grecia nei confronti della Germania non lo è stato perché si sono accumulati debiti governativi, personali e societari che non potevano essere ripagati. Il surplus tedesco diventa punto cruciale per la sopravvivenza del progetto europeo, prossimamente lo racconterò. Teniamo sempre a mente che un Paese non è un’azienda.