World Press Freedom Day: l’Italia Può Fare Meglio, ma Fa già Tanto

Oggi si celebra il World Press Freedom Day, una giornata (quest’anno, per di più, coincidente con il 250° anniversario della prima legge sulla libertà di informazione nel mondo) volta a celebrare l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: una meravigliosa linea che sancisce la libertà di “cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Certo, per l’Italia c’è poco da festeggiare, dato che proprio pochi giorni fa è stato pubblicato il tanto atteso report annuale di RSF sulla libertà di stampa.

L’associazione non governativa Reporters Sans Frontieres -fondata nel 1985 da quattro giornalisti francesi in quel di Montpellier e salita agli onori della cronaca quale strenue difenditrice della libertà di stampa- ha veicolato come ogni anno il proprio punto di vista su dove e quanto sia rispettato nel mondo l’equivalente di un altro articolo, stavolta della Costituzione, precisamente il 21. Che non è la versione pregressa del gruppo di J-Ax, ma un trafiletto della nostra Carta che dice più o meno così: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Amen. Peccato che il nobile trafiletto da solo non basti, e che, sprezzante dei padri fondatori, la nostra amata Italia si sia piazzata settantasettesima. Su 180. Che se si considera che gli stati riconosciuti dall’ONU sono 206 significa quasi tutto il mondo.

Questo risultato scaturisce dall’analisi di un numero indefinito di collaboratori di RSF sparsi in 130 paesi (e mantenuti anonimi per ragioni di sicurezza), che nella valutazione si sono basati su sei parametri: pluralismo editoriale, indipendenza dei media, autocensura, normativa, trasparenza e infrastrutture. Non solo: si chiedeva poi di elaborare una stima numerica dei giornalisti minacciati, aggrediti, denunciati, rapiti o addirittura uccisi per aver svolto il proprio lavoro. Tutto ciò è stato poi rielaborato attraverso machiavellici algoritmi dai quali è scaturito il famigerato punteggio finale. Ebbene, l’Italia perde quattro posizioni rispetto all’anno scorso perché nel 2015 conta “dai 30 ai 50 giornalisti sotto protezione della polizia” e un numero indefinito di intimidazioni fisiche e verbali. Non poteva mancare il riferimento alla mafia: RSF ci dice che a correre i rischi maggiori è proprio chi indaga su corruzione e criminalità organizzata. E ovviamente chi osa mettersi contro l’inespugnabile enclave vaticana, vedi gli otto anni di carcere che rischiano Nuzzi e Fittipaldi per i loro saggi Via Crucis e Avarizia.

Al di là del fatto di essere probabilmente l’unico paese al mondo la cui libertà di stampa è compromessa (anche) dalle leggi un altro stato, il solo fatto di intraprendere inchieste su mafia, corruzione e privilegi essendo consci di ciò a cui si va incontro dovrebbe piazzare i giornalisti italiani tra i più coraggiosi, non tra i più censurati. La valutazione del grado di libertà di stampa non può prescindere dal contesto politico, economico, sociale e anche culturale in cui i giornalisti si ritrovano a operare. Prendiamo la prima in classifica: la Finlandia, campionessa in libertà di stampa ormai da cinque anni. E te credo. Cinque milioni di anime, disoccupazione al 9% e criminalità praticamente assente.  Un sistema sanitario tra i più efficienti al mondo, tasso di alfabetizzazione del 100%, un primo ministro sposato con cinque figli osservante luterano. E babbo natale. Anche impegnandosi non si trova una ragione per cui in un paese simile dovrebbe essere difficile fare giornalismo: nulla da censurare, nulla di scomodo, primo problema sociale la gente che rischia l’ipotermia cadendo ubriaca sui laghetti congelati e secondo i ciccioni sudati nelle saune a rischio collasso.

Vorrei invitare un giornalista finlandese in Italia e cronometrare il tempo che intercorre tra il suo atterraggio e la sua fuga: non gli do più di mezza giornata, saluto alla Lagerback e rifornimento Daygum inclusi. O forse quelli sono svedesi. Poco importa: l’algido cronista scandinavo ne uscirebbe traumatizzato. Perché da noi i giornalisti si sono fatti la pelle a furia di insulti, querele, microfoni divelti, telecamere distrutte e una serie di altre carinerie insite nell’iper-reattivo DNA dell’italiano colto in flagrante. Da noi, i giornalisti, rischiano. Da noi, i giornalisti, muoiono. Gli omicidi di Mario Francese, Walter Tobagi, Giuseppe Fava, Giancarlo Siani e Beppe Alfano e la gambizzazione di Indro Montanelli sono solo alcuni dei metodi con cui mafia e brigate rosse hanno messo a tacere le indagini che le hanno riguardate, a cavallo degli Anni 80 e 90. Anche per questo non ci meritiamo quel 77. E il problema non è, come si è letto sui principali quotidiani nazionali, essere in coda a paesi come il Niger, famoso per le dittature militari e l’analfabetismo al 70%, o a El Salvador, che si contende con l’Honduras il titolo di paese più pericoloso del mondo, o alla Moldavia, campionessa europea di riciclaggio e corruzione, o al Lesotho, uno degli stati meno avanzati del mondo di cui i sudafricani si ricordano solo perché devono mantenerlo.

No, il problema è essere dopo tutti quei paesi (beati loro) dalla realtà fiabesca e quasi incontaminata in cui la stampa è libera semplicemente perché ha poco da dire. Per fortuna RSF ha anche stilato una classifica dei “100 Information Heroes”, quelli che nel World Press Freedom Day tutti dovremmo ringraziare. E per fortuna ha incluso il nostro Pino Maniaci, con il suo canale TV antimafia live from i sobborghi di Partinico, e il giornalista ANSA Lirio Abbate, unico giornalista presente all’arresto di Bernardo Provenzano e da anni sulla lista nera di Cosa Nostra. Ah, indovinate? Nessun finlandese.