La disonestà è un fenomeno oneroso per la società nel suo complesso. No, non mi riferisco a truffe multimilionarie, ma ad atti di ordinaria disonestà – viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto, rubare piccoli oggetti sul posto di lavoro – compiuti da persone che si considerano oneste. Eppure il costo sociale di questa disonestà, che potremmo definire di piccola scala, è incredibilmente alto: in un recente articolo Dan Ariel, economista comportamentale israeliano, ha infatti riportato che il tax gap, ossia la differenza fra quanto l’Internal Revenue Service (IRS) stima che i contribuenti dovrebbero versare alle casse dello Stato americano e quello che effettivamente viene versato, eccede i 300 miliardi di dollari l’anno. Non solo, come sottolineato dal premio Nobel Kenneth Arrow, una disonestà diffusa va a detrimento degli scambi economici, dal momento che ogni transazione commerciale implica un’intrinseca fiducia nella controparte.
Numerosi studi in economia e psicologia hanno dimostrato come esista una maggiore propensione a commettere atti disonesti da parte degli uomini rispetto che da parte delle donne: diverse ricerche hanno infatti rivelato come siano soprattutto i primi a viaggiare sui mezzi pubblici senza biglietto, come le donne siano più propense a restituire un resto sbagliato e come in generale non agiscano in modo disonesto per il costo morale che ciò implicherebbe.
Partendo da queste assunzioni Daniel Houser, direttore dell’ Interdisciplinary Center for Economic Science (ICES), nel suo “On the Origins of Dishonesty: From Parents to Children” ha studiato se la propensione ad agire in modo disonesto debba essere imputata a ciò che in giovane età si impara dai propri genitori. In particolare il suo studio si propone di indagare se la presenza di un figlio/a inibisca l’inclinazione di un genitore a comportarsi in modo disonesto, e se ciò cambi a seconda che il figlio sia di sesso maschile e femminile.