È il 1916 e Antonio Gramsci, uno dei massimi intellettuali del ventesimo secolo nonché mente più temuta da Benny Mussolini (che infatti me lo incarcera nel 1926), pubblica per l’edizione torinese dell’Avanti! uno scritto in cui palesa tutta la sua idiosincrasia per il capodanno. Questa cosa mi ha portato a riflettere molto, ad esempio sul fatto che poche settimane fa ho scritto un pezzo sul mio odio per il natale e che questo dovrebbe di diritto farmi assurgere ad altrettanto rivoluzionaria intellettuale della mia epoca. Che è un po’ come dire che dovrei essere eletta Miss Italia perché anche io ho due occhi e un naso ma va bè.
Lui la pensava più o meno così:
“Odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. […] Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante”.