Industria 4.0, economia italiana ed europea. Sono questi i temi trattati durante l’intervista avuta con Giampaolo Vitali, economista industriale al CNR, docente di economia europea e Segretario GEI, l’associazione che riunisce gli economisti di impresa.
Dott. Vitali, recentemente il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha affermato che il Pil italiano è sì in miglioramento ma siamo ancora lontani dai livelli pre crisi. Si sente di condividere quest’affermazione?
Sono d’accordo con le parole del ministro. Vanno infatti fatte due distinzioni. Per una corretta analisi bisogna distinguere tra dinamica di crescita e livello raggiunto. Se prendiamo in esame quest’ultimo, il livello raggiunto quest’anno è ancora inferiore rispetto al periodo pre crisi. Se invece prendiamo in considerazione la dinamica di recupero, le cose cambiano, perché ci si aspettava una crescita più bassa, invece è stata più veloce e rapida.
Si parla tanto di Impresa 4.0 e di agevolazione alle imprese che investono in tecnologie innovative. Ma a che punto siamo?
Le agevolazioni portate avanti dal governo nei confronti delle imprese che investono sono molto importanti perché creano fiducia nel sistema impresa. La crisi economica ha avuto un impatto diverso, settore per settore. Ci sono alcuni settori che sono stati colpiti maggiormente. Altri meno. All’interno di uno specifico settore ci sono aziende che sono fallite e aziende che invece hanno svoltato e aumentato la propria capacità produttiva. E’ aumentata l’asimmetria e la varianza delle imprese. Basta dare un’occhiata ai bilanci. La distanza di fatturato tra imprese dello stesso settore è aumentata. Dieci e venti anni fa erano più o meno tutte vicine alla media del settore. L’aumento di questa varianza, influirà nei contributi che la politica e il governo daranno alle imprese sotto forma di incentivi e agevolazioni. Non si investirà solo sul singolo settore ma su chi investirà nel cambiamento. Dobbiamo fare una selezione favorendo le imprese che si impegnano meglio nella crescita e che investono in tecnologia.
Il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha detto che la vera sfida è passare da Impresa 4.0 ad un’Ecosistema 4.0 con al centro competenze e professionalità. Eppure la media italiana dei lavoratori che stanno seguendo corsi di formazione professionale è un quarto di quella europea. Perché questo ritardo?
Il problema delle competenze non potrà essere risolto in pochi mesi con incentivi a pioggia. Il fatto è che con l’uso delle nuove tecnologie i vecchi tecnici vengono messi da parte. C’è bisogno di rinnovare quelle figure professionali che 50 anni fa venivano chiamati operai specializzati e che poi si sono trasformati in tecnici manutentori. Il prossimo step è farli diventare tecnici supervisori. Supervisori di quelle macchine tecnologiche proprie dell’industria 4.0. Purtroppo queste competenze non esistono ancora, nemmeno a scuola. O meglio. Manca chi insegna queste competenze. Occorre fare network con le associazioni di categoria in modo tale che esse comincino a modificare i corsi di studio in chiave innovativa. Si tratta di un processo in divenire e in continua evoluzione. D’altro canto si tratta di una rivoluzione industriale e come tutte le rivoluzioni non si sa mai dove si va a finire. La cosa certa è che in futuro questa digitalizzazione dell’economia aumenterà moltissimo le relazioni fra i soggetti impegnati in questa rivoluzione. Al momento però questa digitalizzazione non è ancora avvenuta. Ci sono solo esperimenti. Quando raggiungerà una massa critica, allora le competenze necessarie saranno molto diverse da quelle attuali. L’importante è che le scuole siano in grado di essere flessibili per adattarsi ai fabbisogni di uno specifico settore. E soprattutto non va dimenticata l’economia circolare.
Ovvero?
Poichè oggi l’attenzione è verso lo sviluppo sostenibile, si può studiare l’economia circolare nei distretti produttivi. Per esempio, nel libro sul distretto cartario di Lucca o in quello sul distretto del marmo di Carrara la componente ambientale diventa molto importante. Nel caso del marmo, gli sfridi dell’estrazione in cava del marmo vengono riutilizzati per la produzione di carbonato di calcio, puro al 100%, che viene usato nell’industria cosmetica, in quella della carta, dell’alimentare,
e in tanti altri settori. Nel caso del cartario, l’attenzione ambientale è rivolta al contenimento dei costi (cogenerazione, pannelli solari sul tetto degli stabilimenti e, soprattutto, utilizzo della carta di riciclo) ma anche al marketing e all’innovazione di prodotto (attenzione al segmento di consumo che preferisce la “carta green” e un “prodotto a basso impatto ambientale”). Del resto, il riciclo di carta consente di sopperire alla mancanza di materia prima nazionale, in quanto la cellulosa viene
importata al 100%, e quindi è un processo inserito nel tradizionale percorso di sviluppo seguito dall’Italia dal dopoguerra in poi: un “paese trasformatore”, importatore di materie prime ed esportatore di prodotti ad alto contenuto di design, qualità, e personalizzazione, pur se a medio (o addirittura basso) contenuto di ricerca e innovazione. La storia dei distretti industriali a questo proposito è altresì illuminante: si pensi a quando Prato si sviluppò negli anni ’50 e ’60 grazie alla raccolta degli stracci, e al loro riutilizzo con la cardatura e successiva filatura: un caso di economia circolare, ante litteram.
Passiamo ora all’Europa. Il presidente francese Macron ha lanciato la sua proposta di un bilancio europeo comune che però piace poco a Germania e ai paesi del Nord. E’ un progetto che non vedrà mai la luce?
L’economia Ue ci conferma che l’unione tra i paesi viene determinata dai legami economici, che sono forieri di pace e prosperità, piuttosto che le volontà politiche dei governi o dei cittadini. Ma perché ciò si mantenga stabile nel tempo, e non si verifichino improvvisi “passi indietro” occorre che l’integrazione tra le regioni avvenga senza creare la concentrazione dei vantaggi o dei costi in poche aree geografiche, sociali o produttive. Altrimenti, il malcontento sociale sfocia in comportamenti autolesionistici, come la Brexit o l’indipendenza della Catalogna. Il bilancio comune va fatto e si farà. Sicuramente dopo che sarà formato il governo tedesco e verrà eletto il nuovo presidente della BCE. Probabilmente si arriverà ad una decisione condivisa con la Germania che cercherà di ridurre al minimo la quantità di fondi da destinare al bilancio comune, vincolando il loro uso solo ai paesi che fanno le riforme per recuperare il deficit di bilancio e il rapporto con il debito rispetto al Pil.
Concludiamo con GEI. Lei è segretario dei Gruppo Economisti d’Impresa. Ce ne può parlare meglio?
Gli associati al Gei che lavorano negli uffici studi delle imprese supportano il top management con strumenti informativi nelle scelte strategiche volte a rafforzare il posizionamento competitive dell’impresa. Si tratta di analisi economica a supporto dei processi decisionali, che in realtà sono richieste soprattutto dalle grandi imprese, sia industriali, che dei servizi, che della finanza, ma non dalle piccole o dalle medie. Sembra che per queste ultime l’informazione sugli scenari e le prospettive dell’economia sia ancora un fabbisogno latente, presente ma non rilevato. Con il GEI tentiamo anche di diffondere la cultura di queste analisi prospettiche, un nuovo approccio verso il dato economico che consentirebbe anche al piccolo imprenditore di rispondere in modo più rapido e preparato al verificarsi degli eventi ipotizzati negli scenari economici.