Pil, Euro e Bce, che Italia Sarà nel 2018? Intervista a Gregorio De Felice, Head of Research e Chief Economist di Intesa Sanpaolo

felice de gregorio

Il voto del 4 marzo ha dato il suo responso: nonostante il boom di Lega e M5S e il flop del centrosinistra, nessuna forza politica e/o coalizione ha i numeri per governare. Questi ultimi saranno da ricercare in Parlamento su mandato del Capo dello Stato.

La formazione del prossimo governo italiano preoccupa non poco l’Europa. Non solo dal punto di vista politico, ma anche economico. Le parole spese da Di Maio e Salvini sull’Europa e sull’Euro non rassicurano Bruxelles. Una svolta protezionista potrebbe scatenare un effetto domino. Ma queste, ad oggi, sono solo previsioni. I dati, quelli certi, dicono che l’anno scorso il Pil italiano è salito dell’1,4%. Il top da sette anni a questa parte. Che Italia sarà dunque nel 2018? Proseguirà il suo percorso di crescita? A rispondere a questa e ad altre domande è Gregorio De Felice, Head of Research e Chief Economist di Intesa Sanpaolo, Presidente, dal 2015, dell’ICCBE (International Conference of Commercial Bank Economists) e membro del Consiglio Direttivo GEI.

Dottor De Felice, che Italia sarà nel 2018? Il Pil del 2017 è salito dell’1,4%, secondo una prima stima dell’Istat, Il top da sette anni a questa parte. E’ un trend destinato a crescere? Dati alla mano il prossimo governo potrà attuare una politica fiscale espansiva?

Per l’anno in corso abbiamo una previsione di crescita in linea con quella del 2017 (all’1,3%). L’unico vero fattore di freno è rappresentato da un livello di cambio euro/dollaro più forte, che in prospettiva potrebbe indebolire le esportazioni italiane extra-UE. La quota delle nostre export che si dirigono verso l’area dollaro non supera comunque il 20% e quindi l’impatto potrà essere contenuto.

L’altro fattore di rilievo che caratterizzerà la crescita di quest’anno è il passaggio di testimone dai consumi agli investimenti. La politica di sostegno alle imprese del Governo sta dando i propri frutti e molte aziende, dopo una iniziale fase di incertezza, hanno ripreso ad investire, in particolare nei settori legati al mondo di Industria 4.0. Sarà importante proseguire in questa direzione perché nonostante la ripresa in atto, il PIL italiano si colloca ancora del 5,7% sotto i valori raggiunti prima della grande crisi.

Temo che la possibilità che si realizzino politiche di bilancio espansive sia assai limitata. L’Italia ha già utilizzato tutti gli spazi consentiti dalla flessibilità delle regole europee ed è un dato di fatto che la politica fiscale è già stata espansiva dal 2015 al 2017. Non mi aspetto quindi che ci siano ulteriori spazi se non a fronte di una difficile opera di riduzione della spesa pubblica e di una maggiore lotta alla evasione fiscale.

Sebbene la ripresa in Italia sta diventando più autosostenuta, le prospettive di crescita restano moderate, dato il limitato potenziale di crescita dell’economia italiana”. Queste le parole della Commissione Europea commentando i dati sull’Italia. Quali sono questi limiti?

Le faccio un esempio: la crescita del PIL italiano in termini pro-capite è stata lo scorso anno dell’1,5%; sempre in termini pro-capite, quella tedesca è stata inferiore (1,3%), così come quella francese (1,1%). Ne deriviamo una semplice implicazione: il fattore demografico gioca negativamente per l’Italia. Troppe poche nascite e il positivo allungamento della vita media provocano un invecchiamento della popolazione. Questo non è un male di per sé, ma se consideriamo gli effetti sulla crescita, una popolazione che invecchia cresce meno, investe meno e ha una minore propensione a comportamenti dinamici.

Un’altra ragione del nostro basso potenziale di crescita è legato alla nostra insufficiente dotazione infrastrutturale. Se per trasportare le merci occorre più tempo che altrove, se non sfrutto appieno la posizione geografica dell’Italia al centro del Mediterraneo e quindi “porta di ingresso” per le merci che, arrivando dall’Asia attraverso il canale di Suez, approdano in Europa spreco potenzialità enormi in termini di servizi di logistica, trasporti marittimi e su ferro che invece potremmo cogliere.

Ultima ragione, tra le tante da menzionare, è il capitale umano: nel confronto con i maggiori partner europei abbiamo una incidenza minore di laureati e soprattutto di quelli in materie scientifiche. Eppure siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e dovremmo formare eserciti di ingegneri e tecnici specializzati.

Il prossimo ministro dell’Economia tedesco, sarà il socialdemocratico Scholz, pronto ad archiviare la politica rigorista di Schäuble. Che effetti potrebbe avere sull’economia italiana, una politica europea più permissiva?

Innanzi tutto vorrei dire che abbiamo evitato una coalizione “Jamaica” di cui avrebbero fatto parte i liberal democratici tedeschi di Christian Lindner che ci avrebbe fatto rimpiangere le posizioni di Schäuble. E questo è certamente un dato positivo. Per il resto è ancora presto per capire se Scholz avrà posizioni più vicine a quelle italiane.

Oggi in Europa si contrappongono due visioni distinte. Da un lato, abbiamo la visione renana (o calvinista) che, in poche parole, dice che bisogna ridurre i rischi delle banche, facilitare la ristrutturazione automatica del debito in caso di forte difficoltà di un paese membro, che bisogna affidarsi ancora di più alla disciplina del mercato. Dall’altro lato, abbiamo una visione che potremmo definire “cattolica” che vorrebbe avere più solidarietà e condivisione dei rischi, che vorrebbe una politica della difesa comune, una politica europea per l’immigrazione e che si facessero progressi verso l’Unione Fiscale e poi verso quella politica.

Io penso che sia possibile una terza strada: quella che individua negli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) un punto di forza dell’Unione e che ammette il collocamento di european infrastructure bond. E poi, una vera Unione Europea meriterebbe una politica di bilancio degna di questo nome che non sia limitata all’1% del PIL dell’Europa. Se ogni stato membro fosse disponibile a cedere un po’ di sovranità nazionale, si potrebbe dedicare una quota maggiore della tassazione nazionale al bilancio comunitario con progetti condivisi a favore dei giovani, dell’economia della conoscenza, per finanziare start-up e ricerca. In questo modo la percezione verso i meccanismi dell’Unione di oltre 300 milioni di europei potrebbe di gran lunga migliorare e limiteremmo il diffondersi di populismi di destra e di sinistra oggi così presenti in tanti stati membri.

L’elezione del ministro dell’Economia spagnolo Luis De Guindos alla vicepresidenza della Bce, spiana la strada a Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, potenziale successore di Mario Draghi. In Italia, Weidmann viene considerato da molti come un rappresentante dei risparmiatori tedeschi. Inoltre le sue posizioni critiche nei confronti dell’operato di Draghi sono all’ordine del giorno. Cosa implicherebbe una sua eventuale nomina?

Penso che chiunque sia il successore di Draghi debba avere a cuore gli interessi dell’intera eurozona ed operare nell’ambito del mandato della Banca Centrale Europea che è quello di garantire una dinamica dell’inflazione ad un tasso inferiore ma vicino al 2%.

Se la sua domanda sottintende che con una diversa politica monetaria l’Italia corre maggiori rischi sul fronte del collocamento del debito pubblico vorrei ricordare alcuni punti che differenziano la situazione corrente rispetto a quella della crisi del 2011.

Le condizioni cicliche sullo scenario internazionale sono espansive, e non si vedono segnali di inversione. Esistono oggi dei meccanismi di gestione delle crisi finanziarie a livello europeo che non erano attivi in occasione della precedente crisi.

Il costo del debito permarrà su livelli storicamente bassi per almeno un paio d’anni (il breakeven tra costo delle nuove emissioni e dei titoli in scadenza non si raggiungerà prima del 2020, grazie agli effetti ritardati del piano di acquisti BCE). Inoltre, un percorso di crescita del PIL nominale tra il 2% e il 2,5% quale quello che ci attendiamo a partire dal 2018 appare sufficiente a mettere su una traiettoria discendente il rapporto tra debito e Prodotto Interno Lordo. Un debito pubblico decrescente riduce l’onere del debito anche a fronte di un rialzo dei tassi di entità contenuta.

Più in generale va tenuto presente che i “fondamentali” del Paese appaiono oggi decisamente migliori di quelli del 2011. E’ nettamente migliorata la sostenibilità nei rapporti con l’estero: la bilancia di parte corrente è stimata nel 2018 a +2,5% del PIL, contro un disavanzo di -3% nel 2011. La posizione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia è passata dal -23% del PIL a fine 2010 all’attuale -8% (grazie in particolare a un calo delle passività sull’estero delle banche, dal 48% al 36% del PIL). La quota di debito pubblico detenuto all’estero, che era superiore al 50% a inizio 2010, è oggi scesa sotto il 30%, il che rende il nostro debito sovrano meno vulnerabile alla speculazione finanziaria internazionale rispetto a 7 anni fa.

Chiudiamo con i bitcoin. In questi mesi si è molto parlato di criptovalute, del loro rally sui mercati e della loro aleatorietà. Dove sta la verità? Dureranno nel tempo o saranno una bolla?

Ritengo che bitcoin non sarà mai un mezzo di pagamento effettivamente utilizzabile su vaste proporzioni perché troppo volatile e senza una banca centrale. Mi permetto anche vivamente di sconsigliarne l’acquisto come allocazione di investimento. Diverso è il caso della tecnologia sottostante che è interessante per valutare possibili progressi nel campo dei trasferimenti di denaro.

 

Andrea Turco