Un tempo, quando in Europa c’era la guerra, si andava alla ricerca di un rifugio. Le sirene suonavano e si scappava nel sottosuolo delle città. Ma se le migliaia di persone sopravvissute a Parigi alla follia stragista avessero fatto la stessa cosa, non sarebbe stato possibile arrivare al “miracolo tecnologico della solidarietà” che si è concretizzato tra il 13 e il 14 novembre 2015.
Se nel Settembre 2001, a poche ore dagli attentati alle Torri Gemelle, era sorto al numero 68 di Lexington Avenue a Manhattan un centro di assistenza per le famiglie dei dispersi, dove si erano raccolte le testimonianze, le disperate richieste di informazioni o di qualunque pezzetto di notizia che potesse ancora consentire di sognare il ritorno a casa di chi mancava ancora all’appello, in una Parigi in preda al caos, ecco in che modo i social network sono intervenuti nella gestione del panico.
Facebook ha subito attivato il «Safety check», una funzione tramite la quale ogni persona che si trova in una zona a rischio riceverà una notifica che chiederà all’utente se sta bene. La persona può indicare se si trova al sicuro, inviando automaticamente un messaggio di rassicurazione ai suoi parenti e amici. In pratica lo stesso strumento che era stato sperimentato per la prima volta con il terremoto in Nepal. Una decisione, quella di attivare la funzione di controllo, che ha suscitato però aspre critiche verso Mark Zuckerberg, fondatore e ceo del social network, accusato di aver attivato lo strumento per la strage di Parigi ma non per l’attacco terroristico di Beirut, nel quale venerdì hanno perso la vita oltre 40 persone. In un post pubblicato sul social network Zuckerberg spiega che, se fino ad ora la funzione veniva attivata da Facebook solo in occasione di disastri naturali, ora si sta progettando di attivare il Safety Check per altre eventuali tragedie umane in futuro.