Il referendum turco del prossimo 16 aprirà una nuova era politica per la Repubblica Turca. I milioni di elettori chiamati alle urne dovranno decidere se aprire la strada ai sogni autoritari di Erdogan, consegnandogli le chiavi per poter governare indisturbato o fare un passo in avanti verso un sistema politico più democratico.
La riforma costituzionale a cui i turchi sono chiamati a dare un voto, sì o no, coinvolge 18 articoli e il cambiamento del sistema di governo in uno presidenziale. Nel caso di vittoria del Sì, il potere finirebbe accentrato nelle mani del futuro presidente, con la conseguente abolizione del ruolo di primo ministro e la nomina presidenziale di un vice – presidente. In carica da ben 14 anni, come primo ministro e presidente poi, Recep Tayyip Erdogan, uomo leader dell’Akp, sembra pronto ad assumere il pieno controllo del Paese, trasformando la Repubblica formata da Mustapha Kemal Ataturk in un regime autoritario.
Nello specifico, i 18 articoli sottoposti a giudizio prevedono una concentrazione di potere nelle mani del presidente. Il futuro sistema presidenziale, nel caso diventi effettivo, prevedrà una legislazione di 5 anni e la conseguente elezione del presidente della Repubblica assieme ai deputati in contemporanea.
La riforma consentirà inoltre al presidente di avere maggiore influenza sul potere esecutivo, la possibilità di sciogliere il parlamento e di nominare i membri della corte costituzionale. In tal senso, uno dei maggiori pericoli dietro ad una vittoria del Sì e alla conseguente ascesa di Erdogan, riguardano l’impossibilità del parlamento di processare il presidente. Un’eventuale investigazione richiederebbe la raccolta di firme da parte di 400 parlamentari. Il presidente avrà anche la capacità di proporre leggi dentro un sistema il cui processo legislativo sarà notevolmente ridotto per poter approvare leggi in tempi brevi.
Un altro aspetto significativo, specialmente alla luce del fallito colpo di stato dello scorso 15 luglio, riguarda il potere affidato al presidente in merito alla dichiarazione dello “stato di emergenza”. Memore di sanguinosi colpi di stato, come quello avvenuto nel 1980 a opera di istituzioni militari, la convocazione dello stato di emergenza permetterà di accelerare quel processo di “giro di vite” messa in moto per eliminare dagli apparati burocratici e governativi elementi di intralcio al volere di Erdogan. Inoltre, l’obbligo di processare militari davanti a tribunali civili ridurrà notevolmente il potere dell’esercito nell’ottica di prevenire futuri tentativi di colpi di stato.
Nel caso di vittoria del Sì, nuove elezioni sono previste per il 2019. Grazie alla clausola che permette al presidente di rimanere in carica per due mandati consecutivi, Erdogan potrebbe rimanere al potere in Ankara fino al 2019. Una prospettiva che trasformerebbe definitivamente la Turchia da Repubblica in un regime autoritario. Non solo, l’accentramento di potere nelle mani del presidente potrebbe far ulteriormente slittare il processo di pace con il PKK, il partito filo curdo, inserito dall’unione europea nella lista delle organizzazioni terroriste, e allontanare maggiormente un possibile ingresso della Turchia in Europa.