Che cosa spinge un brand affermato come Urban Outfitters a mettere in commercio una felpa universitaria insanguinata? Probabilmente la stessa motivazione che ha portato uno dei suoi principali competitor, Zara, a lanciare sul mercato israeliano un pigiama che ricorda in modo imbarazzante la tenuta dei prigionieri dei campi della Germania nazista.
Questi sono solo due dei recenti casi di scandalo legati al mondo dell’abbigliamento. Non c’è che dire: o stilisti e addetti marketing sono stati improvvisamente colpiti dalla stessa follia, o ci troviamo di fronte alla punta di un iceberg destinato a sollevare ben più di un po’ di stupore indignato. Che le firme di abbigliamento si pongano di proposito nel mirino dell’opinione pubblica d’altronde non è di certo una novità. È stato proprio il fotografo italiano Oliviero Toscani che associando la sua fotografia al marchio Benetton ha aperto la strada al filone della provocazione nella pubblicità e nel marketing: nei suoi scatti la critica è meticolosamente ricercata e nulla è lasciato al caso. Basta andare sul sito ufficiale della casa di moda per trovare campagne pubblicitarie che immortalano cimiteri, divise insanguinate, rapporti sessuali tra animali e baci appassionati tra politici dalle opposte ideologie. Mai una scusa, mai una smentita.
Cosa c’è quindi di nuovo negli scandali di Zara e Urban Outfitters? Forse la novità sta proprio nel confine tra gaffe e provocazione: sempre meno chiaro è infatti fin dove sia volontaria l’istigazione e dove invece si tratti di un vero e proprio misunderstanding. Una cosa è certa, quello di Urban Outfitters è tutt’altro che un brand di pazzi o sbadati che viaggiano verso il suicidio economico: lo dicono i dati stessi di Urban Outfitters Inc, gruppo che ha di recente annunciato un record di vendite per 811 milioni di dollari solo nell’ultimo quadrimestre. Siamo davvero sicuri che se felpe insanguinate e richiami all’olocausto avessero danneggiato realmente l’immagine del brand ne sarebbe stata permessa la commercializzazione con tanta leggerezza?
Il vero movente per queste scelte al limite del discutibile sembra arrivare da tutt’altro che una casualità: sono proprio le ultime ricerche della psicologia dei consumi a ricondurre infatti il fenomeno non tanto ad una morbosa ricerca di attenzione, bensì a una vera e propria strategia di marketing basata sullo “sconveniente” . Secondo questa logica il brand con sede a Filadelfia che veste gli hipster di mezzo mondo avrebbe architettato con cura la commercializzazione della felpa della Kent State University ricoperta di sangue esattamente nello stesso modo in cui negli anni precedenti aveva commercializzato il crop-top ricoperto dalla parola “depression” o la maglietta con il messaggio pro-anoressia “eat less”.
Secondo questa logica infatti è proprio lo shock con tutto il suo potenziale dirompente a diventare l’attrattiva vera e propria. Comprando articoli del brand incriminato i consumatori sentirebbero così di affiancarsi a qualcosa assolutamente fuori dal comune, emblema stesso della trasgressione tanto ricercata. Sono così proprio le comuni regole di posizionamento sul mercato, il cui tradizionale obiettivo è quello di arrivare al maggior numero di consumatori possibile, ad essere reinterpretate fino al vero e proprio ribaltamento. Lo scopo? Raggiungere un target ben preciso fino a influenzarne le preferenze stesse. In fondo è questo che bisogna fare per trasgredire: allontanarsi dalla morale comune, qualunque essa sia.