La scena politica britannica è stata dominata per tutta la prima metà del 2016 dal dibattito sulla cosiddetta Brexit. Culmine, e secondo le speranze dei più, soluzione, della discussione pubblica, è stato il referendum del 23 giugno in cui una strettissima maggioranza della popolazione britannica (52%) ha espresso la decisione di separarsi dall’UE.
Problema risolto? Non proprio. Realizzare la volontà del popolo si sta rivelando un compito più arduo del previsto.
Dopo le dimissioni del primo ministro Cameron, e un intenso gioco della patata bollente tra leader politici, alla guida della spinosa situazione si è posta Theresa May, eletta per l’occasione leader del partito conservatore e primo ministro. May ha proceduto a rivoluzionare la composizione del governo, e ha basato la propria piattaforma elettorale, e in un certo senso l’intera legittimazione del proprio mandato, sul recesso dall’UE, attraverso l’attivazione dell’articolo 50 del trattato che ne è alla base; su un’ambiziosa negoziazione della posizione del Regno Unito rispetto al mercato comune; e sull’approvazione di un atto, noto come Great Repeal Bill, che comporterebbe l’abrogazione di tutti gli atti del parlamento che hanno implementato nel corso degli anni la normativa europea ora sgradita, a partire dall’European Communities Act del 1972. Per tenere fede alle proprie promesse, la premier fa affidamento sulla royal prerogative, un insieme di poteri che sono rimasti storicamente nella disponibilità del sovrano, dunque sottratti dalla competenza degli organi del parlamento, e altrettanto storicamente devoluti al capo di governo che li esercita.
La posizione del parlamento è quella di una maggioranza decisamente opposta al recesso UE, dichiaratasi assolutamente non intenzionata a farsi condizionare da un referendum di puro indirizzo politico come quello di giugno. L’attivazione del famigerato articolo 50, e tanto più l’approvazione di un Great Repeal Bill, da parte del parlamento sembrano dunque quantomeno improbabili, e tantomeno sembra probabile che Westminster risulti vincolato dal risultato del referendum. Lo strumento referendario nel Regno Unito infatti manca di una normativa unitaria che ne definisca chiaramente l’efficacia e la vincolatività. Attualmente inserito nel framework definito dal Political Parties, Elections and Referendums Act (PPERA) del 2000, ciascun referendum richiede comunque legislazione specifica per la propria regolamentazione. La legittimità del referendum sulla brexit, per esempio, poggia sullo European Union Referendum Act del 2015, approvato da Westminster, sul royal assent concesso dalla regina, necessario per determinare l’effettivitá delle leggi di approvazione parlamentare, nonché sull’approvazione di un atto separato, lo European Union (Referendum) Act del 2016 di competenza del parlamento del territorio autonomo di Gibilterra. Non esiste alcuna base costituzionale nella tradizione britannica da cui si possa inferire la vincolativitá di un referendum; per contrasto, fu vincolante per espressa previsione normativa, il risultato del quesito posto sulla base del Parliamentary Voting System and Constituency Act del 2011 e del relativo atto di promozione referendaria, sul sistema di voto britannico; oltretutto l’esistenza di previsioni normative espresse in occasione di alcuni specifici referendum depone a favore della tesi della non vincolativitá del referendum del 2016 una prova difficilmente contestabile.
Ma il governo potrà comunque agire sulla base della royal prerogative? No, i contenuti di tale potere sono definiti dalla dottrina costituzionale britannica, la quale, tuttavia, non poggia su una costituzione scritta. É dunque impossibile decidere in maniera oggettiva se includano il potere di recedere dagli accordi internazionali di questo tipo. Nonostante il Parliament and Costitution center del Parlamento abbia dichiarato nel 2009 la competenza del governo in materia di politica estera, l’attivazione dell’articolo 50 é stata dichiarata dalla High Court esorbitante da tale capacità a causa dei suoi effetti diretti ed immediati sulla normativa interna, dal momento che comporterebbe secondo l’opinione del Queen Counsel Lord Pannick, la disapplicazione immediata dello European Communities Act del 1972; i poteri di prerogativa governativa è ritenuto non possano sovvertire precedenti decisioni esplicite del parlamento, come nel caso dello European Communities Act. Infatti é del resto altrettanto radicato nella dottrina dei costituzionalisti il principio della parliamentary supremacy, la supremazia del parlamento nella funzione legislativa, che permette a quest’organo di approvare leggi indipendentemente dall’indirizzo politico indicato dal governo (o tantomeno dal popolo); tale supremazia non conosce alcun limite nella dottrina britannica. L’opinione iperbolica (ma tecnicamente corretta a giudizio della dottrina) che il parlamento possa “mettere a morte tutti i bambini dagli occhi azzurri” è uno degli esempi di tale dottrina espresso da Sir Leslie Stephens nel 1882.
A risolvere la situazione è stata chiamata la High Court of Justice a Belfast, il cui responso è negativo rispetto alla possibilità del governo di agire autonomamente rispetto a Westminster. Certo, qualora l’ipotesi della royal prerogative fosse in realtà corretta, la corte non avrebbe la competenza necessaria per giudicare su questa materia; il contenuto di questo giudizio quindi non può avere carattere vincolante.
L’unico organo a non essere stato adito, che può ancora vantare la competenza necessaria per risolvere la questione, è la Corte Suprema, presso cui comincerà a dicembre il giudizio che dovrebbe risolvere l’interrogativo una volta per tutte. Per ora la questione rimane aperta; la scadenza (tutta politica) data dal governo per l’attivazione della procedura di recesso, a Marzo 2017, si avvicina inesorabilmente, mentre governo e parlamento rimangono ancorati alle rispettive posizioni. Con tutta probabilità il piano di uscita del governo May dovrà essere votato dalle due camere, correndo il rischio molto realistico di non essere approvato. Se questa possibilità si dovesse verificare, il futuro dei rapporti britannici con l’UE rimarrà incerto, potendo prospettarsi o un recesso a condizioni speciali, o accordi bilaterali per la permanenza nel mercato comune, oppure, dopo tutto, un nulla di fatto.
Riccardo Fadiga