C’era un tempo in cui le banche centrali puntavano il dito sull’inflazione dei salari, per evitare il ritorno della rovinosa spirale prezzi-salari del 1970. Dall’inizio della crisi finanziaria, però, hanno invertito l’andamento delle proprie preoccupazioni: il nemico principale, adesso, sono i salari stagnanti e rischio sempre maggiore di deflazione.
Tra il 2010 e il 2013 il salario reale si è appiattito. In particolare, questo fenomeno è stato particolarmente pronunciato in Giappone, Portogallo e Spagna. Ma anche l’America non è stata affatto immune. I primi segni di questo andamento stagnante, risalgono a ben prima della crisi. Tra il 2000 e il 2007 il lavoratore medio ha visto crescere il proprio salario solo del 2.6%, mentre la produttività è cresciuta del 16% (a vantaggio esclusivo delle grandi aziende). L’anno scorso (dicembre 2013) Larry Summers, già segretario al tesoro con Clinton, sottolineava come l’economia dei paesi ricchi già prima della crisi si sviluppasse solo moderatamente e solo grazie a grandi stimoli monetari e alla crescita di una bolla immobiliare e di una del debito, pubblico e privato. La conclusione è che ormai l’economia si trova in una situazione di depressione di lungo termine (Secular Stagnation) che potrebbe durare a lungo e costituire ormai la normalità delle cose.