Era il 2002 quando la Cina entrò nella Organizzazione Mondiale del Commercio(WTO), all’epoca la produzione annuale cinese era di 1.700 miliardi di dollari, la quota cinese del commercio mondiale valeva il 5,3%, il reddito pro-capite era di 1.500 dollari. Diciotto anni dopo, la situazione è radicalmente cambiata: la produzione industriale cinese vale 14.000 miliardi di dollari, il valore della Cina nel commercio mondiale è del 12,8% e il reddito pro-capite è arrivato a 9.000 dollari.
Tutto è cambiato a livello economico, ma ricordiamoci che proprio nel 2003 apparve in Cina, il virus responsabile della Sindrome Respiratoria Acuta Grave, meglio nota come SARS. Fare della similitudine riguardo gli effetti economici di quel periodo e quelli di adesso, data la premessa, non ha alcuna corrispondenza economica. Lo scenario attuale è molto più complesso e connesso quindi l’epidemia in corso minaccia il sistema economico. Nel 2003 l’economia cinese era “piccola” ma cresceva in maniera tumultuosa, nel 2020 è la seconda area economica del mondo tuttavia mostra un rallentamento importante della crescita. Il partito comunista cinese ha lanciato un piano economico definito “New Normal” con una crescita rivolta al mercato interno e con tassi di crescita più contenuti.
Potremmo dire che il vero maratoneta può partire con uno sprint, ma poi deve saper dosare la corsa se non vuole doversi fermare. Il partito unico cinese si trova ad affrontare sfide interne (vedi Hong Kong e di credibilità nell’affrontare l’epidemia) e minacce internazionali (guerra commerciale e tecnologica). Tutto ciò complica le prospettive altrove, infatti si hanno i primi segnali : Apple, Starbucks, Ikea, hanno chiuso temporaneamente alcuni punti vendita cinesi; le vendite di marchi come Nike, McDonald’s sono crollati in Cina. Le fabbriche di General Motors e Toyota stanno riducendo la produzione ed alcune compagnie aeree, American Airlines, Delta, United, Lufthansa e British Airways hanno sospeso i voli. La catena americana di supermercati Walmart, che acquista grandi quantità di prodotti da fabbriche cinesi ha deciso di ridurre gli orari d’apertura dei suoi 430 punti vendita. La casa di produzione cinematografica Imax ha rinviato l’uscita di alcuni film in Cina. L’attesissima fiera Art Basel di Hong Kong del prossimo mese di Marzo è stata annullata. Goldman Sachs e JP Morgan hanno invitato i loro dipendenti a ritardare il rientro in Cina. La lista potrebbe continuare e importanti società di consulenza hanno fatto previsioni di rallentamento della crescita economica cinese in un 5,6% rispetto a 6,1% atteso per quest’anno, già ridotto da 6,5%.
Questi segnali preoccupanti sono stati ampliati dalla decisione delle autorità cinesi di iniettare nuovi capitali nell’economia per circa 22 miliardi di dollari e, inoltre, il piano prevede regole meno stringenti per le aziende cinesi per accedere al debito. Questo per quanto riguarda gli aspetti quantitativi, tuttavia le preoccupazioni maggiori sono dovute al fatto che molte aziende cinesi sono diventate leaders in settori tecnologicamente importanti come per gli smartphone, computer e componenti per auto. In sostanza la Cina è diventata, durante questi 18 anni, un anello importantissimo della catena di approvvigionamento per fabbriche di tutto il mondo. Bisogna ricordare che la scelta dei dazi effettuata da Trump aveva già spinto molte aziende multinazionali a spostare la produzione in paesi come il Vietnam. L’industria americana dei semiconduttori, motore dei processi d’innovazione a livello globale dipende dalla Cina: circa il 30% dei ricavi Intel provengono dal mercato cinese, Qualcomm, che produce chip per telefoni, ha realizzato il 47% dei guadagni in Cina. Un rallentamento della crescita economica della Cina di un 1% sarebbe una frenata per tutte le economie in giro per il mondo. Maggiormente sarebbero colpite quelle asiatiche (Corea del Sud, Hong Kong, Thailandia, Malesia, Giappone); in Europa, la Germania e la Francia subirebbero un rallentamento del Pil pari a circa 0,15%.
Quando la locomotiva tedesca rallenta, per l’Italia iniziano seri problemi, visto che per noi il passo è breve dalla stagnazione attuale alla recessione prossima ventura. Come se non bastasse, la “sorte”, meglio il Coronavirus, ha colpito il cuore produttivo cinese, se si considera che Wuhan e la provincia dello Hubei sono un centro importante di smistamento di petrolio e gas, ed lì si trova il porto fluviale e aeroporto tra i più grandi della Cina. L’economia cinese, essendo un grande produttore, è anche un grande importatore di greggio a livello mondiale. Dopo lo scoppio dell’epidemia Coronavirus, il prezzo del petrolio è sceso del 16%, tanto da spingere OPEC ad indire una riunione di urgenza per valutare un taglio della produzione. Dopo l’epidemia della Sars, la Cina registrò una contrazione di alcuni mesi, tuttavia dopo il 2003 ricominciò a galoppare. Le cose in quel caso andarono meglio del previsto, si individuò anche un vaccino che non venne mai utilizzato perché la propagazione del virus diminuì velocemente.
L’economia cinese è stata in questi anni il vero motore della crescita mondiale, ma se la situazione attuale, dovuta all’epidemia, continuasse per altri mesi ci sarebbero grossi problemi. Studiosi della prestigiosa università Imperial College di Londra parlano della possibilità di individuare un vaccino genetico in un lasso di tempo che potrebbe essere tra 3 mesi e tre anni. Nella ipotesi ottimistica di tre mesi in ogni caso non possiamo immaginare di avere un vaccino utilizzabile per l’uomo prima di un anno. Voglio essere chiaro e dire che le azioni intraprese dal governo cinese vanno nella direzione giusta di rallentare la propagazione del virus fuori dal territorio cinese, questo è fondamentale per salvaguardarci la salute ma anche limitare gli effetti negativi economici. Le scelte economiche della globalizzazione e di poca attenzione nel salvaguardare il nostro ecosistema hanno comportato aumento di patogeni che mutano sempre più velocemente, bisognerà abituarci ad eventi futuri di questo tipo.
Non si può tornare indietro e non dobbiamo pensare che la soluzione sia la “decrescita”, abbiamo invece bisogno di “correre” ancora più velocemente nell’allocare le risorse tecnologiche, finanziarie e soprattutto umane verso una migliore allocazione e smettere di sprecare intelligenza, volontà, determinazione, sogni e tasse preoccupandoci solo di difendere 1% della popolazione che detiene il 60% della ricchezza mondiale. La battaglia del Coronavirus si combatte in prima linea nei laboratori, ma la guerra la si vince con scelte politiche-economiche di strategia.