Riflettori internazionali tutti puntati su Cuba da quando, il 25 novembre, è morto Fidel Castro, il padre della Rivoluzione Cubana. Il giudizio sulla sua persona e sul suo lungo operato sono e rimarranno sempre controversi. E’ evidente, però, che è passato alla storia per aver fatto tremare il mondo negli Anni ’60, riuscendo allora a portare Cuba al centro degli equilibri e continuando a difendere tenacemente l’ “isola rossa“, a soli centinaia di miglia dagli Stati Uniti. Davanti a questo vuoto politico, ci si interroga su quali possibilità di cambiamento ci potranno essere per il paese e, inevitabilmente, sull’ eredità lasciata al mondo.
Il vuoto lasciato a Cuba è fondamentalmente simbolico: Fidel, infatti, è stato sicuramente un uomo del 20esimo secolo e non del 2000, come dimostrano i fatti. Lasciando il posto, già dal 2006, al fratello Raul, il Lider Maximo si era ritirato dal potere esecutivo ritagliandosi un ruolo di “coscienza politica”. Raul si ritrova, dunque, da un lato a gestire in primo persona un paese con una crescita economica difficile, dall’altro avrà le mani per modernizzare un sistema economico ormai vecchio.
D’altro canto, come in tutte le altre parti del mondo, nemmeno a Cuba tutti gli uomini al potere sono sulla stessa lunghezza d’onda. La vecchia nomenclatura non è scomparsa e ci saranno, inevitabilmente, dei profondi divari tra i sostenitori di un’apertura accelerata e i partigiani della “linea dura”. Con la differenza che non essendoci più Fidel a rappresentare il ruolo di arbitro supremo, ci si potrà ragionevolmente aspettare un’apertura verso l’economia di mercato.
E’ evidente che, da parte dei cittadini, specialmente dei giovani, è molto sentita la speranza di cambiamento. Tuttavia, rimane da escludere un sollevamento popolare, considerando che il popolo non e’ attrezzato (la stragrande maggioranza non ha nemmeno accesso a internet). Molto più probabile, dunque, un cambiamento dall’interno del sistema.
Da qui scatta la domanda: Cuba andra’ o non andra’ verso il multipartitismo. Anche questo resta da capire. Una buona parte di cubani, pur richiedendo una modernizzazione accompagnata da una liberalizzazione, sono fieri di quello che definiscono i “logros de la revolucion“, ossia le realizzazioni della rivoluzione come l’assenza di criminalità, la sanità pubblica e il fatto di avere i migliori indicatori sociali del centro America. Nessuno, dunque, sembrerebbe aver voglia di vedere l’isola tornare a essere il “bordello degli Usa” che era stato sino al rovesciamento della dittatura di Battista. Rischio che potrebbe, effettivamente, esserci qualora il regime aprisse al multipartitismo.
D’altra parte, Raul riconosce di non essere più un giovane comandante, tant’è che ha già annunciato che lascerà il potere nel 2018, molto probabilmente all’attuale numero due del regime, il cinquantenne Miguel Diaz Canek, che sarebbe il primo presidente cubano a non aver partecipato alla Rivoluzione. Costui sembrerebbe ben disposto a un’apertura alle riforme ma, allo stesso tempo, in misura limitata.
Anche per quanto riguarda i rapporti col mondo, è ancora troppo presto per fare previsioni. Il lider maximo si era posto a lungo come pilastro del movimento dei non allineati e ha dato grandi slanci rivoluzionari in tanti paesi dell’America Latina e non solo. Ora che l’ideologia rivoluzionaria socialista è stata pressoché consegnata alla storia, si dovranno per forza trovare altre sinergie nelle relazioni internazionali.
Il rebus più grande rimane sempre la controversa apertura agli Usa, già avviata con l’ amministrazione Obama, ma che potrebbe prendere una piega del tutto diversa con la nuova amministrazione Trump. E’ risaputo, infatti, che il neo presidente eletto non è visto come un interlocutore convincente per i cubani. Lui stesso, in campagna elettorale, cercando di conquistare i voti della comunità cubano-americana (in grandissima parte composta da esuli
dell’isola) decisamente rilevante in Florida, ha minacciato di rimettere in discussione l’accordo firmato da Obama nel giugno 2015 ricordando che tutte le concessioni accordate erano state firmate tramite decreto presidenziale senza passare dal Congresso.
Questo significa che potrà avvalersi del diritto di abrogarli come del resto, ha già minacciato di fare nel Cuba non dovesse assecondare le loro richieste economiche e politiche (la liberazione di centinaia di prigionieri politici e il rispetto della libertà di espressione in tutte le sue forme).
Ma ora che la dinastia Castro potrebbe lasciare definitivamente il potere nel 2018, Trump riconsidererà la sua posizione?
Le reazioni che ha espresso alla morte di Fidel sembrerebbero andare in questa direzione, tant’è
che il neo presidente, ha dichiarato in un tweet, di avere la speranza che questo lutto importante segni un taglio definitivo col passato politico e che sia una prima tappa verso un futuro di libertà per il popolo cubano. Ergendosi a “paladino” dei diritti dei cubani e cavalcando il vuoto lasciato dal lider maximo, il neo presidente potrebbe determinare una nuova svolta importante fra i due paesi. In fin dei conti, la politica di disgelo è sostenuta dal 63% della comunità cubana-americana.
Che, oltretutto, ha votato quasi al 60% per Trump. Inoltre, tutti sono coscienti degli effetti positivi portati dal riavvicinamento iniziato da Obama e che ha permesso la riapertura dell’ambasciata americana sull’isola, oltre a un rafforzamento importante nella cooperazione tra i due paesi, specialmente nei settori dell’aviazione, del turismo e delle telecomunicazioni.
La morte di Fidel pone dunque a Trump la sua prima sfida internazionale.
Se la sfida politica, ma soprattutto ideologica, tra l’isola rossa e gli Stati Uniti si perpetrerà senza esclusione di colpi di scena sotto la guida delle nuove amministrazioni, le relazioni economiche bilaterali tra i due paesi sono tutt’altro che scontate. Negli anni più bui della Guerra Fredda infatti, fu Cuba in primis a espropriare le proprietà americane dall’isola, attirandosi la collera dello zio Sam che impose l’embargo su ogni tipo di esportazione non autorizzata, rompendo peraltro ogni canale diplomatico.
Era il 1961, e pochi anni dopo la popolazione locale a causa di questo duro colpo attraversò una delle fasi di decadenza economica più amare di sempre a causa di un approvvigionamento delle risorse poco diversificato. L’economia di stato venne sviluppata esclusivamente sull’esportazione della canna da zucchero verso i paesi sovietici, in cambio di elargizioni da Mosca sotto forma di prestiti e sussidi: la struttura centralizzata era destinata a soccombere non appena l’URSS, unico partner commerciale, venne sopraffatta dagli scontri intestini. Questo periodo di sofferenza, pena e scarsità di beni primari ha lasciato un duro colpo sulla memoria collettiva popolare, tanto che ricordo dai miei viaggi una vena sottile di odio misto a ironia quando sentivo pronunciare lo slogan “mejor Batista con sangre, que Fidel con Hambre”, alludendo a un regime severo, ma pur sempre legittimato da un benessere più vasto, sotto il primo leader filo yankee.
Oggi, quasi 60 anni dopo, sembra non sia cambiato nulla, e forse è l’unico posto al mondo dove è davvero cosi: non esistono supermercati, e per procurarsi delle sostanze di prima necessità quali farina, burro e uova bisogna possedere dei buoni pasto emanati da entità statali; non si può dialogare via email o effettuare ricerche sul web; non si può detenere una proprietà da vendere all’estero. Il commercio è limitato a scambi di prima necessità, con un mercato manipolato dall’alto del partito unico. In termini di scambi internazionali, Cuba nel 2015 ha esportato beni per $1 miliardo, a fronte di $4 miliardi di import (l’Italia ha scambi per circa $1 triliardo), con un bilancio negativo per $4 miliardi che rende evidente ancor di più la necessità di far affidamento a canali di approvvigionamento esteri a fronte di un’economia domestica non ancora autosufficiente. E non a caso il 25% degli import cubani, ovvero $1 miliardo, proviene dall’alleato comunista cinese; a seguire Spagna ($920M), Brasile ($507M), Canada ($389M) e Messico ($360M).
Tuttavia non si deve esser portati a pensare che i rapporti economici con gli Stati Uniti rimangano inesistenti. Sin da prima del riavvicinamento innescato dalla presidenza Obama, gli Stati Uniti contribuivano per circa $150M in beni spediti verso Cuba, tra cui prodotti alimentari, medicinali e aiuti umanitari. Inoltre, le rimesse dei lavoratori immigrati negli States ammontano a ben $3 miliardi di masse (nel 2015) inviate ai membri familiari rimasti sull’isola: questa dimensione aggiunge uno strato di complicità e complessità alla relazione tra lo Stato americano e la comunità cubana, in quanto strategica e redditizia. Ma i segni di una prima apertura verso un’economia di mercato si sono manifestati proprio lo scorso gennaio 2015, quanto gli Stati Uniti si impegnarono tra l’altro a: (i) rimuovere il limite sulle donazioni di denaro rimesse verso cittadini cubani, (ii) autorizzare una diminuzione dell’embargo verso certi settori, e (iii) permettere l’utilizzo di carte di credito americane. Nel contempo, 5 giganti delle telecomunicazioni americane hanno sancito un accordo con le autorità cubane per l’interconnessione diretta dei servizi voice e dati.
L’economia cubana è dunque rimasta in bilico e stagnante per oltre mezzo secolo, ma una rinnovata stabilità diplomatica consentirebbe sicuramente una cooperazione strategica commerciale che porterebbe un miglioramento di vita netto nelle case dei cubani. Per quanto infatti il sogno del patto socialista abbia portato dei vantaggi sociali innegabili, la possibilità di accedere a servizi e beni moderni rimane limitata e sorvegliata da vicino. A partire dall’industria del turismo però (gli americani erano fortemente scoraggiati da trascorrere delle vacanze sull’isola fino all’anno scorso, con controlli serrati da parte del dipartimento di stato), si aprono per Cuba degli spazi importanti di collaborazione economica con partner internazionali, che possono risollevare le speranze dei cittadini cubani che un giorno desiderano esser liberi di scegliere e determinare la propria esistenza.