Lì, dove ci si potrebbe aspettare di non trovarle, al confine turco-siriano, stanziano attente e vigilanti un gruppo di donne curde, armate di coraggio e non solo. Combattono il nemico comune: quei guerrieri jhaidisti dello “stato islamico”, che per ferocia e violenza sembrano perdere ogni tratto umano.
Risale al 6 ottobre scorso la morte di una donna siriana di nome Arin Mirkan, deceduta dopo essersi fatta esplodere presso la città di Kobani, centro della difesa curda, in mezzo a più di 27 militanti dell’ISIS, proprio allo scopo di ucciderli; così come ha affermato lo stesso Rami Abdurrahman, direttore dell’osservatorio della Syria per il rispetto dei diritti umani, il numero dei morti è approssimativo e ciononostante significativo.
Un gesto tanto coraggioso quanto disperato quello posto in essere dalla donna fattasi simbolo, attraverso la propria dipartita, di un popolo non rassegnato, e in particolar modo di una parte di questo, quello femminile. Le donne curde non sembrano più intenzionate a rimanere in disparte come “semplici” custodi della casa, ma vogliono difendere la propria terra combattendo fianco a fianco con soldati e volontari.
Dato importante avallante quanto detto fin qui, dal quale evincere tanto l’importanza quanto l’incidenza delle donne curde in campo militare, è quello riportato dal quotidiano siriano Syria Deeply: la difesa militare siriana, ed in particolar modo quella curda, sarebbe composta per circa il 30% da donne. Un vero schiaffo al sessismo. E ancora, sembrerebbe che nell’arco dei secoli proprio le donne abbiano ricoperto un ruolo fondamentale in campo militare, al pari, quindi, degli uomini; queste infatti sarebbero sempre state forti compagne e talvolta vere e proprie leader tra i pesh merga, (i combattenti indipendentisti curdi).
E’ il caso Avesta, ragazza ventiquattrenne a capo di una piccola milizia di resistenza curda, composta nella sua totalità da 13 persone. Tra questi, otto sarebbero donne. Avesta combatte a fianco dei curdi sin dall’età di 14 anni, avendo già visto il fronte nel 2005 contro i turchi e, nuovamente, nel 2012. La donna, da sempre eretta a garante e immagine da una parte del focolare domestico e dall’altra dell’unità familiare, si chiama in causa, combattendo una guerra che ad oggi conta troppi morti, frutto di una distruzione fisica e psicologica sfociante spesso in un sadismo bestiale.
Il termine pesh merga, tradotto letteralmente, significa essere disposto a combattere fino alla morte. Che queste donne – e uomini – lo siano appare evidente, anche se sono più di 200.000 i morti che la guerra in Siria ha prodotto in quasi quattro anni e non sembra vi siano le condizioni affinché il conflitto possa arrestarsi. A questo punto, la domanda che sembra più legittima da porsi pare la seguente: fino a quando, queste donne, saranno costrette a combattere?