Qualche settimana fa la notizia che un colosso come Siemens ha deciso di inserire alla voce straordinario il tempo che i propri dipendenti trascorrono a rispondere alle mail sul proprio smartphone al di fuori dell’ufficio, ha fatto subito il giro del mondo. In un mondo sempre più iperconnesso e sempre più devoto all’assenza di tempo libero, la decisione della compagnia tedesca non ha destato però scalpore ma sicuramente qualche sospiro di sollievo da parte dei propri manager (e non solo), instancabili ricettori di corrispondenza oltre l’orario canonico e nuovi schiavi di un fenomeno chiamato busyness.
Già all’inizio del secolo scorso, l’esigenza provata dagli individui di sentirsi superiori ai propri simili tramite l’impegno, andava acquisendo infatti un ruolo sempre maggiore all’interno delle dinamiche sociali, trasformando progressivamente la nostra società in quella che è diventata oggi: un insieme di individui dipendenti dall’essere impegnati. Ma impegnati a far cosa? C’è chi a questa domanda risponderebbe “nell’affermazione del proprio io e nella ricerca del proprio successo personale”. In realtà, la questione è più complessa di quanto non potrebbe sembrare. Al di là della cause che varie correnti di pensiero imputano al fenomeno, quest’ultimo è venuto configurandosi come una vera e propria patologia rispondente appunto al nome di busyness. Negli ultimi anni il fenomeno ha raggiunto proporzioni inaudite e ha acquisito un ruolo di primo piano in seno alla ricerca sociologica moderna. La domanda a cui si cerca di dare una risposta è “perché il fatto di essere impegnati esercita sempre più una pressione a livello sociale?”
Fornire una risposta univoca è ancora complicato. Quello che è certo è che la busyness sia divenuta oramai una vera e propria forma di dipendenza. Essere costantemente impegnati, secondo gli esperti, facendoci sentire importanti, genera in noi una sensazione di euforia ed appagamento che poi abbiamo la necessità di ricercare nuovamente. In realtà alcuni sostengono che, a sua volta, il fatto di essere super impegnati, non sia altro che una sensazione determinata dall’alta connettività delle nostre vite con il mondo circostante. Ad esempio, il fatto di rispondere ad una mail di lavoro mentre si è al supermercato contribuisce a farci sentire più impegnati di quanto non lo siamo in realtà. Poco importa però se alla fine della giornata tutto lo sforzo di fatto non determini un aumento di produttività. Quello che sembra importante è il semplice e solo stato di appagamento.
Ma la vera questione su cui molti si interrogano è la seguente: a quale prezzo?
Sicuramente questo stato di sovraccarico lavorativo genera una condizione di stress non indifferente. La dipendenza è tale che la quantità e qualità delle ore dedicate al sonno diminuisce notevolmente comportando un generale peggioramento delle condizioni di salute dell’individuo. Al contrario di una qualsiasi pillola capace di generare dipendenza però, il cosiddetto stato di busyness, gonfia il nostro ego e ci fa sentire importanti senza creare effetti collaterali evidenti, dando vita così ad un circolo vizioso da cui difficilmente si riesce a trovare la volontà di uscire.
Sarà quindi questo stato di ultraimpegno la droga del nostro secolo? Sicuramente sarà un male da combattere, magari a colpi di sonnolenza e di concentrazione. Non certo verso il proprio telefono o la propria posta elettronica!