Perché un Azionista di Facebook ha Pagato l’Avvocato a un Ex-Wrestler

C’è una questione che sta dividendo la Silicon Valley e che non ha niente ha a che vedere con brevetti tecnologici, diritti d’autore o stringhe di linguaggio C. Si tratta di una diatriba legale che coinvolge tre soggetti apparentemente privi di qualsiasi connessione, quali l’ex wrestler Hulk Hogan, il miliardario co-fondatore di paypal (nonché fra i primi azionisti Facebook) Peter Thiel e il proprietario del gruppo Gawker Media Nick Denton. Tutto comincia nel 2012, quando Gawker pubblica un sex tape che ritrae Hogan, al secolo Terrence Bollea, in compagnia di Heather Cole, al secolo moglie del suo migliore amico, il DJ radiofonico Todd Alan Clem. Il wrestler fa causa al blog per violazione della privacy, e tra marzo e aprile 2016 ottiene dal tribunale di St. Petersburg (Florida) la sentenza auspicata: non solo ha ragione, ma ha anche diritto a 115 milioni di dollari a titolo risarcitorio più altri 25 per danni punitivi. Un risultato notevole, merito anche dell’avvocato Charles Harder, uno tra i legali più in vista (e più costosi) di Los Angeles, che tra i propri clienti annovera attori del calibro di George Clooney e Julia Roberts. Un legale troppo caro persino per l’ex campione di WWE. Ed è qui che entra in gioco Peter Thiel. I rumor inizialmente trapelati a proposito del supporto economico da parte di un facoltoso investitore della Valley diventano realtà: Thiel conferma di aver finanziato le spese legali di Hogan, per un totale di 10 milioni di dollari. Già, ma perché?

Hulk Hogan
Hulk Hogan

La pratica di finanziare altrui procedimenti legali, conosciuta come third-party litigation funding, è perfettamente legale e sempre più diffusa: chi sponsorizza ottiene, in caso di vittoria, una percentuale prestabilita dell’eventuale risarcimento. Dati i 2.7 miliardi di dollari del patrimonio di Thiel secondo Forbes, risulta però difficile credere che l’abbia fatto per un ritorno economico, anche perché sarebbe stato molto più proficuo attaccare la società assicurativa di Gawker. No, il pioniere dei pagamenti online ha voluto colpire direttamente Denton. È anche per questo che le ragioni filantropiche addotte da Thiel –che, a suo dire, continuerà a supportare le cause contro Gawker, al fianco di chi non può permettersi di difendersi giuridicamente– risultano poco credibili. Non solo: sempre più testate parlano di vendetta personale, dato che nel lontano 2007 Gawker forzò il coming out del venture capitalist pubblicando un articolo dal titolo “Peter Thiel is totally gay, people”.

Nick Denton
Nick Denton

Non è ancora ben chiaro se Thiel si avvicini più a un postmoderno Robin Hood o al Conte di Montecristo, certo è che sta dividendo l’opinione pubblica, dentro e fuori la Valley. Donald Trump, che Thiel supporta quale delegato in California, ha già affermato che rafforzerà le norme sulla diffamazione così che “potremo fargli causa (a chi scrive cose negative sul loro conto, ndr) e vincere un sacco di soldi”. Il board di Facebook, dal canto suo, sottolinea che Thiel abbia agito indipendentemente dal ruolo che ricopre e che quindi abbia tutto il diritto a rimanere membro del CdA. Dall’altra parte c’è chi ha un po’ più presente il primo emendamento. Ad esempio il CEO di eBay Devin Wenig e il fondatore di Amazon (nonché proprietario del Washington Post) Jeff Bezos, che hanno dato il loro appoggio a Gawker lanciando al contempo una frecciata a Facebook e al suo recente impegno nel voler diventare fonte di notizie autorizzata alla pubblicazione di articoli: “Non si può far sedere al CdA di un sito di pubblicazione un miliardario che ha fatto causa a un altro sito per ciò che ha pubblicato” è il commento di Bezos.

Peter Thiel
Peter Thiel

Ma le conseguenze della vicenda, a meno di ricorso in appello dall’esito miracoloso da parte di Gawker, potrebbero anche andare oltre. Come osservato dal presidente della First Amendment Coalition Peter Scheer, “Situazioni come questa hanno effetti dissuasivi sull’intera industria dei media. Incoraggiano individui benestanti (oggi sempre più numerosi) a procedere con onerose cause legali, portando gli editori, anche in caso di vittoria, a pensarci due volte prima di scrivere ancora qualcosa di negativo su di loro”.

Denton, che tra risarcimento e spese legali rischia di dover chiudere i battenti (o, nel migliore dei casi, di vendere) non ha ancora abbandonato ogni speranza: “Sono fiducioso che quando il caso arriverà alla corte d’appello si riconoscerà il ruolo del giornalismo critico, e che gli sarà garantita protezione. Abbiamo scritto un sacco di storie, distrutto un sacco di storie e infastidito un sacco di potenti. C’è bisogno di una voce critica, specialmente nel mondo moderno, specialmente negli Stati Uniti”. C’è da augurarsi che abbia ragione, anche perché a distanza di 200 anni esatti l’affermazione di Thomas Jefferson “Where the press is free, and every man able to read, all is safe” è più attuale che mai.