Il presidente del Consiglio europeo è l’esponente di spicco di un Paese che non fa parte dell’eurozona: sembra una contraddizione palese, ma è solo una questione formale, e in tanti hanno dovuto digerire malvolentieri l’elezione del polacco Donald Tusk. Eppure c’era da aspettarselo. A partire, intanto, dalla presa di coscienza di quella che è una tendenza inconfutabile: la locomotiva economica europea, ormai da tempo, guarda con crescente entusiasmo verso est. Poi per una questione meramente numerica: la Polonia è – con la Germania – l’unico stato membro a non essere uscito con le ossa rotte dalla tempesta recessiva che si è abbattuta sul Vecchio Continente. Di più: la Polonia di Donald Tusk cresce ogni anno ad un ritmo medio del 4%, e le macerie lasciate dalla caduta del Muro rappresentano un ricordo tragico ma lontano.
Si dice che nel prescrivere ricette economiche efficaci pesino parecchio visione e lungimiranza. Ma a decretare le sorti di un processo di crescita può contribuire anche una variabile per certi versi incalcolabile: il destino. Ai tempi della luna di miele tra gli europei e l’idea di crescita smisurata di cui era portatrice la nuova moneta unica, infatti, la Polonia non aveva le carte in regola per accodarsi al carrozzone dei Paesi cosiddetti virtuosi. Procrastinare quell’ingresso a data da destinarsi era l’unica soluzione a portata di mano, ma rimaneva comunque un sogno: gli europei occidentali incarnavano le aspirazioni future dei polacchi, perché l’idea di possedere una moneta comune e solida assumeva su di sé una forte connotazione liberatoria, quasi di riscatto definitivo per un popolo sul quale ancora aleggiavano gli spettri del regime sovietico.