Se una quindicina di anni fa aveste visto il nome di un rapper sulla cronaca nazionale vi sareste aspettati storie di spaccio, violenza o addirittura omicidio. Oggi più che sangue, sesso e droga ci possiamo godere lacrime, storie d’amore e battibecchi da talk show: chi avrebbe mai pensato di poter ritrovare gli esponenti di quello stesso genere catapultati dai ghetti delle periferie disagiate direttamente in un talent show?
Che la musica rap non sia più solo il terreno di incontro e scontro tra gang e movimenti di rivendicazione sociale è ormai argomento assodato tanto negli Stati Uniti quanto in Italia. Basta guardare alle collaborazioni degli artisti, che popolano la scena italiana per capire come i confini del genere rap siano del tutto confusi con la musica pop, quella che piace a tutta la famiglia e va in onda in prima serata.
Così nel 2014 possiamo ritrovare i famigerati Club Dogo catapultati dalle periferie di Milano direttamente in una collaborazione con la ragazza che solo 5 anni fa cantava Sincerità sul palco di San Remo. Com’è potuto accadere? Com’è stato possibile che rapper nati dal nulla come Fedez o Emis Killa siano potuti diventare l’idolo di centinaia e centinaia di ragazzine alla stregua di One Direction e Demi Lovato?
Se i più cinici si sono già arresi definendo il boom del fenomeno rap come la morte stessa del genere, non appena ci si addentra nel panorama discografico italiano si scopre che l’alternativa ai soliti noti c’è, ed è sempre più variegata. Le etichette indipendenti continuano a produrre seguendo un’evoluzione musicale tutta loro, ottenendo a dispetto degli scettici ottimi risultati: ce lo dimostrano la Blue Nox Academy, la Unlimited struggle o la Machete Crew, che con Salmo incarna l’esatto opposto dei colleghi che popolano le cronache dei settimanali e i salotti televisivi. Sempre di più la dicotomia tra il rap conscious e quello dedicato al grande pubblico sembra essere predominante nella produzione degli artisti: come se una corrente, sopravvivendo e acquisendo la propria identità, in qualche modo alimentasse l’altra.
Ancora una volta il panorama musicale si configura come il terreno dello scontro perpetuo tra arte in sé e per sé e produzione artistica come puro strumento di intrattenimento. Nell’era digitale il mercato discografico risponde agli stimoli senza sosta, allargano i propri orizzonti tanto agli utenti del pop quanto alle nicchie di indie, metallari, jazzisti e patiti di techno. È forse proprio la versatilità stessa della musica rap, con le sue basi incalzanti e la dialettica a piede libero, a conquistare gli ascoltatori più impensabili.
Il personaggio di Moreno che sostiene i suoi ragazzi in uno dei talent show più seguiti di sempre, piace. Fedez che si commuove, difende le sue fan e si batte per la legalizzazione delle droghe leggere, piace ancor di più. Giovani ragazze e ragazzi ne sono straniti e attratti, così come incantata ne è l’industria discografica, che grazie ai nuovi fenomeni del rap ottiene vendite altrimenti difficilmente immaginabili per nuovi artisti.
Non sarà certo un caso che nella classifica degli album più venduti del 2013 si parla del quarto posto per Stecca di Moreno e della sesta posizione per Sig. Brainwash – l’arte di accontentare del buon Fedez. Con buona pace dei puristi del genere, ancora una volta, è l’evidenza empirica che parla: al grande pubblico arriva ciò che il grande pubblico vuole.