All’Italia non piace il Pop. Uber ha deciso di sacrificare la sua nuova app per privati cittadini, ma mettere al sicuro il suo servizio “mainstream” da ogni possibile attacco normativo e giudiziale. Sembra proprio una strategia deliberata, portata avanti sapientemente attraverso un mix vincente di colpi di marketing, comunicazione, lobbying e azioni legali.
Uber ha iniziato ad operare nel 2010 a San Francisco, in Usa, ed è attiva oggi in oltre 30 città in giro per il mondo. Ha lanciato il servizio Uber Pop in Italia a fine 2014, proprio poco dopo i primi strali dei taxisti contro quello che iniziava, con ritmi di crescita impressionanti, a diventare una realtà chiacchierata al bancone di ogni bar.
I taxisti, impegnati ad organizzare barricate dure e talvolta anche violente, sono caduti nella trappola. Invece di richiamare l’esigenza di nuove regole, valide per tutti, a tutela del consumatore e del professionista, a favore dell’innovazione di un servizio vecchio come concezione e modello di business, hanno agito in larga parte come untori.
Il primo errore che hanno commesso è stato quello di sottovalutare, come peraltro abitudine diffusa nel loro mondo, la voce (insoddisfatta e frustrata) dei consumatori. Il secondo è stato quello di non riconoscere il nemico giusto da combattere, facendo di tutta l’erba un fascio. Il terzo è forse il peccato originale: attraverso decenni di opposizione sorda a qualsiasi forma di liberalizzazione, hanno creato le condizioni ideali per la normalizzazione della situazione extra-legem di Uber, la cui forma “piratesca” è stata in qualche modo tollerata dalle autorità giudiziarie proprio in ragione di quanto non accaduto nei decenni passati.
Tant’è, l’intervento recente e doveroso della giustizia contro il servizio Uber Pop rischia di essere male interpretato dai paladini del sistema delle costosissime licenze. La giustizia, condannando il figlio ribelle di Uber, sta implicitamente legittimandone il fratello maggiore.
Si è dovuto sacrificare, almeno per il momento, la forma più estrema dell’economia della condivisione, ma contestualmente si è aperta la fase 2 del progetto di Uber: la normalizzazione del suo core business, ovvero il servizio di NCC supportato da un sistema di prenotazione e pagamento innovativo e sicuro. Nemmeno poi così futuribile, almeno fino a quando non si aprirà la fase 3, quella in cui il servizio di trasporto diventerà un semplice contenitore, o forse meglio dire veicolo, di nuovi servizi personalizzati (come la consegna delle merci a domicilio). A quel punto ne vedremo sì delle belle.