Dopo oltre 2700 anni di controllo maschile, Virginia Raggi diventa il primo sindaco donna della capitale con il 67.15% delle preferenze. Voto di protesta, antirenziano o di reale aderenza all’ideologia grillina (e al programma amministrativo) che sia, quella della giovane avvocatessa romana è a tutti gli effetti un’elezione a furor di popolo. Ma c’è una cosa che se risiedessi a Roma vorrei mi fosse chiarita. Premessa: ho un’opinione assolutamente neutra del M5S e dei suoi esponenti. Li reputo più credibili di altri, anche se contro certi altri si vince abbastanza facile. Sono intransigenti e giustizialisti, anche e soprattutto con i propri adepti: il che è ammirevole, ma al contempo rischia di veicolare un’immagine di scarsa compattezza all’interno di un gruppo che qualora salga al governo non potrebbe permettersi di sfaldarsi a ogni dubbio di colpevolezza. Hanno un’ottima capacità dialettica nonché diverse idee condivisibili, così condivisibili da risultare talvolta troppo ambiziose, come se si potesse ignorare la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è realmente fattibile. Come dicevo, somma netta zero. Ergo, a prescindere dalla politica, dal doppiopetto dell’impeccabile Luigi Di Maio e dal fascino selvaggio alla Ashton Kutcher di Ale Di Battista, vorrei fare il punto sul discusso (ma non abbastanza) “codice di comportamento” che Raggi ha spiegato di aver firmato, vincolando di fatto il proprio operato di sindaco alla volontà superiore del movimento. In che modo? Ho provato a sfogliare qualche quotidiano ma non si capisce una mazza, sono tutti super faziosi chi da una chi dall’altra parte e l’unica cosa oggettiva a emergere è il fatto che questo codice in realtà non l’abbia letto nessuno. Così l’ho fatto io.
La prima cosa strana è che si riferisce solo ai candidati di Roma. E viene da chiedersi, che ha fatto di male? Deve scontare le peccaminose ambientazioni del Piacere di D’Annunzio, la grande bellezza dei libidinosi festini raccontati da Sorrentino, il processo di Mafia Capitale? Forse quest’ultimo sì, dato che tra le clausole da sottoscrivere figura la specifica dichiarazione di non lavorare presso enti coinvolti nell’omonima inchiesta, diversi da quelli eventualmente già comunicati al movimento. Tralasciando il fatto più o meno discutibile di trattare Roma come un fidanzato fedifrago che se ti ha tradito una volta allora lo farà sicuramente molte altre perché è geneticamente portato, gli arresti nella capitale non rendono gli altri comuni immuni da ogni irregolarità. Eppure nessuna traccia di codici comportamentali, ad esempio, per il neosindaco di Torino Chiara Appendino.
Altro incaglio del buonsenso all’articolo 2, secondo cui “le proposte di atti di alta amministrazione e le questioni giuridicamente complesse verranno preventivamente sottoposte a parere tecnico-legale a cura dello staff coordinato dai garanti del Movimento 5 Stelle”. Uno staff di tutto rispetto, la cui identità è stata rivelata dalla stessa Raggi per evitare ogni pregiudizio: Roberta Lombardi (Camera), Paola Taverna (Senato), Fabio Castaldo (Parlamento Europeo) e Gianluca Perilli (Consiglio Regionale del Lazio). Intendiamoci: ha perfettamente senso coordinarsi con la giunta e richiedere il parere di esperti in materie particolarmente complesse. Ma la domanda è: cosa succede in caso di conflitto? Ok la condivisione di valori e idee, ma anche i pentastellati sono esseri umani e possono maturare opinioni divergenti. Chi avrebbe la meglio, il sindaco o la giunta a esso sottesa? E cosa sarebbe prioritario, l’impegno preso con i cittadini o quello con il movimento?
Gli articoli 4 e 5 sono i più innocui, si occupano di comunicazione e trasparenza, sancendo che “lo strumento ufficiale per la divulgazione delle informazioni e la partecipazione dei cittadini” sarà il blog di Beppe Grillo; che sindaco, assessori e collaboratori debbano sempre coordinarsi con i responsabili della comunicazione del movimento definiti da Grillo e Casaleggio (ora solo dal primo) e che ogni decisione dovrà essere motivata e spiegata con un video YouTube. E tutto ciò ok, è inusuale ma perfettamente in linea con l’approccio divulgativo votato alla tecnologia per cui è noto il movimento. Soprattutto, non sembra precludere l’efficiente messa in pratica delle varie decisioni della giunta.
Stesso non dicasi per l’articolo 9: le sanzioni. Sindaco, assessori e giunta dovranno dimettersi seduta stante in caso di condanna penale, anche se in primo grado. E questo non fa una piega. Dovranno però dimettersi anche in caso di sola iscrizione nel registro degli indagati qualora “la maggioranza degli iscritti al M5S mediante consultazione in rete ovvero i garanti del Movimento (Grillo, ndr)” decidano in tal senso, in nome del “superiore interesse della preservazione dell’integrità del Movimento”. Come dicevo prima, da un lato è ammirevole. Dall’altro però pone due questioni. Prima di tutto Grillo, che in campagna elettorale non è praticamente comparso, lasciando giustamente tutto lo spazio e la visibilità alla sua candidata, si scopre avere un enorme potere decisionale (oltretutto monopolistico, dopo la scomparsa di Casaleggio) sulle sue dimissioni. In secondo luogo, è giusto affermare che l’integrità del movimento abbia priorità su tutto? Non si dovrebbe prendere in considerazione il rischio del lasciare una città come Roma senza sindaco e senza giunta dal giorno alla notte sulla base della sola apertura di un’indagine che potrebbe benissimo dare esito negativo?
Forse sì, soprattutto perché continuando a leggere si scopre che le dimissioni dovranno essere presentate anche nel più fumoso caso di venuta meno “all’impegno assunto al momento della presentazione della candidatura nei confronti degli iscritti al M5S, con decisione assunta da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio o dagli iscritti M5S mediante consultazione online”. Al di là dell’eterno ritorno dell’egemonia decisionale di Grillo, quale sia “l’impegno assunto nei confronti degli iscritti M5S”, quanto questo possa prevalere su quello preso con i cittadini e quanto sia compatibile e coerente con esso resta un’incognita.
Chiaro, tondo e a tre zeri è invece l’importo dell’eventuale danno all’immagine del movimento che il sindaco si impegna a versare qualora contravvenga al codice etico, previa notifica dello staff di Grillo: 150mila euro. Da devolvere a un non meglio specificato ente benefico, che è bellissimo ma io entrerei in Comune ogni mattina con un’ansia da codice etico che in confronto Damocle aveva sopra la testa un mazzo di peonie.
In ogni caso è perfettamente possibile che per Raggi non sia così, e che anzi governi in modo efficiente e integerrimo anche grazie all’esistenza di questo contratto. Che però sarebbe meglio snocciolare fino in fondo, in nome della totale trasparenza che esso stesso cita. Perché alla fine credo che i romani abbiano tanta voglia di vederci chiaro, di vederci bene e di vedere all’opera qualcuno che tenga alla loro città: come diceva qualcuno, l’amor che move Roma e i 5 stelle.