Definito nell’800 “il perno dell’Asia”, lo Xinjiang è tornato ad occupare un ruolo geostrategico nel “nuovo grande gioco” delle potenze in Asia Centrale, specie dopo la scoperta dei ricchi giacimenti petroliferi (1/5 delle risorse del Paese). Nel 2008 la regione era il secondo centro produttore della Cina, con 27,4 milioni di tonnellate di greggio. Nel sottosuolo sono presenti anche metalli ferrosi e le maggiori riserve di gas naturale e carbone. Fondamentale è poi la gestione delle frontiere con ben 8 paesi, alcune di esse oggetto di contesa.
Per controllare questa remota provincia, il partito gioca da sempre la carta dello sviluppo economico, unita alla repressione. Dal 1978 al 2000 il PIL è cresciuto in media del 10,3% annuo, più che nel Paese nel suo complesso. Negli anni ‘90 si è puntato sulla pianificazione centrale e sulle grandi opere infrastrutturali, con la creazione di zone economiche speciali, sussidi all’agricoltura e sgravi fiscali. L’economia si basa su due pilastri: uno nero, il petrolio, e uno bianco, il cotone. Nel 2000, la produzione di beni primari costituiva il 21,1% del PIL, una quota ben più alta di quella nazionale; la centralità di questi settori spiega il peso ingombrante dello stato rispetto al settore privato.
Strumento di controllo è da sempre la migrazione interna, dagli anni ‘90 orchestrata dall’alto: l’invio di lavoratori cinesi (han) ha ribaltato l’equilibrio demografico a discapito delle minoranze. Arma chiave della pianificazione è il bingtuan, ovvero i Corpi di Produzione e Costruzione, organo produttivo paramilitare utilizzato per il presidio, per lo sviluppo economico e per l’urbanizzazione intensiva. Nel 1994 i membri erano circa 2,22 milioni, di cui l’88,3% cinesi. Questo “stato nello stato”, nato dallo smantellamento dei corpi dell’esercito, ha raggiunto nel 2013 un volume di import-export di oltre 11 miliardi di dollari (10 di esportazione) ed è l’ossatura dell’economia. È il bingtuan a vigilare contro “i tre mali del separatismo, estremismo religioso e terrorismo”: così le grandi proteste civili degli ultimi 30 anni sono state represse dalle sue milizie.