La notizia della morte di Fabiano Antoniani, per tutti dj Fabo, avvenuta lunedì mattina in Svizzera, oltre ad aver toccato il cuore di molti, ha riacceso la decennale querelle nazionalpopolare sul diritto dell’essere umano di scegliere se porre, o meno, fine in maniera dignitosa a una vita che di dignitoso non ha più nulla.
Una controversia che nasce da lontano, dalle camere di degenza degli ospedali, dai letti di casa, dalle strutture di ricovero, si avvicina fino alle aule del parlamento italiano e si allontana di nuovo, questa volta per sempre, fuori dai confini italiani.
La storia di Fabiano, da tre anni cieco e tetraplegico a seguito di un incidente stradale, che ha scelto di andare a morire in Svizzera, non è unica nel suo genere. Sono 232, infatti, gli italiani che, per motivi diversi ma sempre di origine medica, dal 2015, hanno chiesto informazioni su come ottenere l’eutanasia all’estero. Numeri in crescita, che, come sottolinea il presidente dell’Associazione Exit-Italia Emilio Coveri, stimano in 50 italiani l’anno i degenti che chiedono di poter porre fine dignitosamente alla propria vita.
Così, visto che la legislazione italiana non lo consente, queste persone sono costrette a emigrare per ottenere quello che molti definiscono un suicidio assistito. Il posto più vicino è la Svizzera, dove strutture come quella a cui si è rivolto Fabo, per 10mila euro mettono in pratica il protocollo previsto dalla legge svizzera sulla Morte Volontaria Assistita.
Sulle modalità di quella che in gergo viene chiamata dolce morte non ci soffermeremo. L’hanno fatto in tanti e tanti ancora lo faranno con spirito diverso.
Quello che abbiamo deciso di fare è stato contattare Dignitas – to live with dignity – to die with dignity (questo il nome completo), la struttura svizzera alla quale si è rivolto Fabiano per porre fine per sempre alla sua sofferenza.
La prima cosa che ci tengono a fare, nella comunicazione che ci inviano, è mettere in chiaro due aspetti, spesso frutto di fraintendimenti.
La prima, che Dignitas non è una clinica. Si tratta infatti di un gruppo di membri appartenenti a un’associazione no profit che si batte per l’aiuto alla vita e il diritto alla morte. Non ci sono medici e non ci sono infermieri, così come non ci sono reparti di degenza o stanze dedicate alle emergenze e al pronto soccorso. In Svizzera l’assistenza al suicidio richiede posti comuni come la propria casa o un appartamento privato. Non una clinica.
La seconda precisazione riguarda il servizio offerto. Non si tratta di eutanasia, formalmente vietata in Svizzera. Quello che è possibile fare presso la struttura è la possibilità di determinare la fine della propria sofferenza fisica attraverso il “suicidio assistito” (o come preferiscono chiamarlo loro, il suicidio accompagnato). Una definizione e una precisazione che è bene fare perché chiarisce al meglio di cosa si tratta: una fine consapevole, frutto di una scelta ponderata dovuta alla propria sofferenza.
Il suicidio accompagnato vuol dire che l’individuo che decide di porre fine alla sua vita deve essere in grado di somministrare da sé il farmaco letale. È lui che deve avere la piena capacità di giudizio. Inoltre la persona, in questa struttura, può andarsene circondata da familiari e amici. Il tutto dopo un processo di preparazione molto accurato. Uno dei fini dell’esistenza di strutture come Dignitas è contrastare i cosiddetti suicidi clandestini.
L’obiettivo di Dignitas non è quello di attirare gente da tutto il mondo, ma spingere le nazioni a rivedere il proprio sistema legislativo, per implementare leggi che consentano all’individuo di non diventare quello che loro chiamano “suicide tourist” (o “freedom tourist”).
Dignitas, concludono, si augura un giorno di non esistere più. Questo vorrà dire che le persone non saranno più costrette ad allontanarsi dai propri cari per porre fine a una vita piena di sofferenze.