La Fenomenologia della Morte nella Musica

A chi non è mai capitato di riguardare le foto di un vecchio amore o di tuffarsi nei ricordi tramite quegli oggetti che hanno contrassegnato le tappe di una storia di vita vissuta? Tutti i cuori infranti hanno passato in rassegna cimeli, lettere e regali commuovendosi almeno una volta.

Che sia questo il fenomeno che ha spinto migliaia di fan a far impennare le vendite dei dischi di George Michael? Nella settimana successiva alla morte dell’artista inglese, solo negli Stati Uniti, sono state vendute la bellezza di 477 mila copie (registrando un +2.678% rispetto alla settimana precedente) dei suoi lavori da solista.

Nell’ultimo dolorosissimo anno abbiamo assistito a numerose perdite nel mondo della musica. Il processo di “superamento del lutto” dei fan, tramite l’acquisto di dischi che ripeteranno all’infinito quelle parole che li hanno fatti innamorare dei loro idoli musicali, è stato messo alla prova su vari generi.

Il mondo del rock si è diviso le lacrime fra Leonard Cohen e David Bowie. Billboard (settimanale statunitense dedicato alla musica) ha rilevato che l’ultimo album del Duca Bianco, uscito esattamente nella settimana della sua morte, ha fatto registrare il boom di vendite con 174 mila copie in una settimana. Anche per il cantautore canadese il momento dell’addio alla vita terrena è coinciso con la corsa all’acquisto dei suoi brani. Nei sette giorni successivi alla scomparsa di Cohen, infatti, il dato più clamoroso è quello della percentuale di download delle sue canzoni, che è cresciuto, sempre negli Stati Uniti, del 600%.

Il mondo del Pop, oltre a G. Michael, ha perso anche Prince durante quello che da tanti è stato definito un annus horribilis. Il mercato statunitense ha visto i singoli e gli album dell’artista di Minneapolis (deceduto il 21 aprile) vendere 3.474.000 copie tra il 15 e il 24 aprile 2016.

Potremmo snocciolare altri dati relativi a Michael Jackson, Kurt Cobain o ad altre star scomparse negli anni passati. Risulterebbero tutti (o quasi) dati spaventosi. La sensazione è che il punto più alto della carriera di un artista (dal punto di vista commerciale) sia paradossalmente quello della morte.

Ma perché l’ultimo atto combacia puntualmente con l’aumento delle vendite delle opere create in vita? Semplice, tutti vogliono un pezzo di unicità. Quei componimenti saranno gli ultimi che l’autore creerà mai. Chi non può più esprimersi, per cause di forza maggiore, lascia in eredità l’ultima occasione di accaparrarsi un testamento artistico. Lo scopo delle equipe che lavorano a mantenere vivo il ricordo di queste grandi icone è molto delicato. E’ necessario destreggiarsi tra sacro e profano, creando prodotti fruibili e raccontando anche le storie più intime dei divi scomparsi (tramite libri, musei e documentari), senza scadere nel cattivo gusto e senza ledere la sensibilità dei fan.

Proprio il pubblico gioca un ruolo fondamentale nell’industria musicale post mortem. Le manie, il collezionismo e l’affetto di chi perde il contatto con il proprio idolo musicale, fanno sì che persone di tutto il mondo competano su varie piattaforme per aggiudicarsi cimeli appartenuti agli artisti scomparsi. Basti pensare che nel 2009 a un’asta svoltasi all’Hard Rock Cafè di New York, il guanto bianco indossato da Michael Jackson nella prima esibizione di Billie Jean del 1983, è stato comprato per 350 mila dollari da un acquirente anonimo.

La linea che divide emozioni da una parte e spietato business dall’altra è molto sottile. E’ pur vero che senza queste gestioni imprenditoriali, alcuni artisti passati a miglior vita, verrebbero probabilmente dimenticati dal grande pubblico, vista la massiccia produzione odierna e la velocità con la quale cambiano i gusti degli ascoltatori.

Le riproduzioni streaming di George Michael nel frattempo hanno sfondato il muro dei 50 milioni di ascolti. Non sappiamo se la sua eredità artistica sarà gestita con la stessa bravura di chi cura quelle di M. Jackson ed E. Presley ma se il buongiorno si vede dal mattino…