C’era un tempo, circa 15 anni fa, in cui i giornalisti in Medio Oriente non venivano rapiti, non venivano torturati e non venivano uccisi mediante sanguinose esecuzioni. Era un tempo in cui il confronto, tra chi aveva qualcosa da dire e chi voleva raccontare, era pacifico e costruttivo. Un tempo scandito da domande e risposte, caratterizzato da confronti e perplessità, che il più delle volte sfociava in tentativi di comprensione e persuasione. Era un tempo lontano da oggi, lontano dall’ISIS, lontano dalla violenza dell’estremismo islamico, lontano dalle decapitazioni di giornalisti come James Foley e Steven Sotloff.
A raccontarlo è Jeffrey Goldberg, un giornalista americano di origini ebraiche, oggi reporter per l’Atlantic e in passato corrispondente di guerra per diverse testate, tra cui il New Yorker e lo Slate.
“Nell’estate del 2000 ho vissuto per un mese in una madrasa talebana a Peshawar, in Pakistan. Nel nostro primo incontro Samiul Haq, un confidente del Mullah Omar, tentò di convincermi: “Il problema non è tra musulmani e cristiani. L’unico nemico che l’Islam e il Cristianesimo hanno sono gli ebrei. Sono stati gli ebrei a crocifiggere Cristo”. (…) “Sono ebreo”, dissi. E lui, dopo una pausa: “Sei il benvenuto, qui”.