Dalla Via della Seta alle prossime elezioni europee, l’esperto di politiche europee ed internazionali Orazio Maria Gnerre ci offre una prospettiva forte nelle sue competenze in merito agli assetti che andranno a definire i nuovi parametri di cooperazione tra Stati membri della stessa organizzazione economica, militare e politica alla genesi di una narrazione di riassestamento dei vecchi equilibri, in parte, turbati. Il suo libro pubblicato da Mimesis, “Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco”, baluardo di contenuti che impongono nuovi interrogativi, rappresenta il punto di partenza per una consapevolezza storica che supera la conoscenza intesa come piacere asettico della tipica manualistica. “Credo vi sia un messaggio che può essere profondamente attuale nel testo, dato che ogni opera, comprese quelle di finzione letteraria, interroga l’epoca in cui è stata prodotta: il totalitarismo (di destra, di sinistra e di centro) esiste perché il suo perimetro concettuale è stato definito dal liberalismo, che è la “filosofia” del mondo attuale. Di contro, ogni fenomeno totalitario è stato un tentativo di contrapporsi ai principi logici del liberalismo, che oscillavano dal libero mercato al concetto antropologico di individuo”, afferma Gnerre quando gli domando il senso della sua opera prima. E ancora l’utilizzo improprio dei termini sovranismo e populismo, gli insegnamenti cardini del giurista Carl Schmitt fino al superamento degli aggregatori di idee identificati nel nome di “desta e sinistra” che non hanno saputo trovare una definizione chiara per descriversi. A voi, i contenuti di una lezione che va oltre la natura ideologica delle cose, che affronta l’origine di molte controversie attuali e, probabilmente, non ascolterete mai da un esponente della nostra classe politica. Perché come affermava Pier Paolo Pasolini “il coraggio intellettuale della verità e la pratica della politica sono due cose inconciliabili, in Italia”.
Cosa si aspetta dalle prossime europee? Che evoluzione e scenario avremo in caso di una svolta sovranista?
Quello che oggi vediamo in Europa è un deciso quanto evidente cambio di rotta, che è chiaramente sintomo di un riallineamento generale della politica mondiale, oltre che una risposta a tutte le lacune della politica economica e sociale impostata da decenni di dominio dell’ideologia liberale. Fenomeni come i gilet gialli, l’avanzata dei partiti populisti o di leader come Corbyn nel Partito Laburista britannico testimoniano questo cambio di rotta. È evidente che questa rotazione, che si applica innanzi tutto nei parlamenti, arriverà fino a quello dell’UE. Il punto però qui non è sulla retorica utilizzata da partiti o movimenti cosiddetti populisti o sovranisti (nelle varie accezioni o sfumature di significato che questi termini assumono), ma l’indirizzo generale di questi stessi partiti nei confronti della politica internazionale e di quella economica, laddove queste due variabili sono strettamente correlate. Se abbiamo avuto il caso di posizioni nette contro l’insolvenza dell’Italia (ad oggi “populista” col governo giallo-verde) da parte delle destre sovraniste austriaca e tedesca, pure sostenute da Matteo Salvini, significa come minimo che non vi è un coordinamento tra queste forze politiche sul piano strategico. Ma in realtà il vero significato di tali eventi va oltre questa superficie “organizzativa”: la verità è che ancora non abbiamo capito (e i partiti che ostentano queste etichette pure) il significato dei termini “populismo” e “sovranismo”. Il populismo, che ha una nobile origine nella storia delle idee (i narodnikirussi, i volkischentedeschi…) è stato relegato non solo dai suoi detrattori, ma anche dai suoi nuovi adepti, a mera demagogia, che era un elemento che, seppure si sia parzialmente eclissato in quella breve fase di fuga verso la tecnocrazia e il governo “degli esperti” della democrazia occidentale, è sempre stato parte del fenomeno politico liberale. Prova ne è che ad oggi tutti i partiti la tornano ad usare, insieme ad appelli sempre più accorati e inconsistenti a “popolo”, “nazione” e così via. Basti dire che qualche giorno fa Bersani citava da Floris l’Appello ai compagni in camicia neradi Palmiro Togliatti, per giustificare un dialogo culturale con le destre. Ripeto, Bersani… Epperò chiaramente questo non basta, laddove le politiche generali rimangono quelle di sempre. Il concetto di sovranismo esprime ancor meglio questa ambiguità: oggi è ormai quasi necessario definirsi sovranisti, e il campo sovranista si amplia dalla destra di Lega/Fratelli d’Italia fino alla sinistra di Patria e Costituzione di Fassina, ma ancora non è ben chiaro a quale sovranità si fa esplicitamente appello. La sovranità, come concetto filosofico-politico, può appartenere a più soggetti (la nazione, il popolo, lo Stato, anche – ohimé – al Capitale e ai mercati…). Se intendiamo – come si presuppone avvenga, ma non abbiamo fini politologi tra i politici italiani… – il sovranismo come principio di validità della sovranità della nazione (si presuppone nel contesto internazionale rispetto alle strutture sovranazionali, e nel contesto interno rispetto a fenomeni che limitano le funzioni democratiche), allora vediamo che quasi tutti i partiti cosiddetti sovranisti (escluse forse le frange più radicali a destra e sinistra) non hanno politiche che rispettano questo principio. Se il problema fosse solo quello dell’organizzazione, probabilmente basterebbe il principio dell’internazionalismo, cioè della collaborazione tra forze nazionali eterogenee, a ordinare il quadro. Ma io temo che vi sia una profonda malafede di fondo. Lo scenario che si profila dalle elezioni europee sarà quindi una ridefinizione millesimale degli equilibri di potere in Europa, probabilmente ai danni della Francia, laddove il potere tedesco, la subordinazione italiana e il controllo sul continente da parte degli USA non saranno messi in discussione.
“Se la Russia dovesse ritirarsi dalle convenzioni europee, questo scioccherebbe davvero l’Europa”. Crede sia possibile un’inversione di rotta?
Io credo sia necessariaun’inversione di rotta, ma a compierla dovrebbe essere l’Europa stessa. L’Unione Europea finge incredulità di fronte all’allontanamento della Russia da una dimensione di cooperazione con i Paesi occidentali, ma a ben vedere di chi è la colpa? Negli ultimi anni l’Europa non ha fatto altro che attaccare la Federazione Russa in questioni che riguardavano la sua politica interna, la gestione della propria sicurezza nazionale, la definizione dei suoi obiettivi strategici. Non ultimo, gli eserciti europei nell’alleanza NATO sono in mobilitazione continua ai confini della Russia, mentre Paesi europei parlano esplicitamente della possibilità di un conflitto su vasta scala con la Federazione. E tutto questo mentre la Russia, dall’implosione dell’Unione Sovietica in poi, ha cercato di dialogare e collaborare non solo con l’Europa, ma con tutto l’Occidente. Che la Russia abbia una politica di potenza è vero, ma che questa abbia una proiezione di dominio mondiale è falso. Il problema principale è che per gli attori occidentali l’unico modo che la Russia avrebbe per sussistere nel mondo globalizzato non è una rinuncia bilaterale alla politica di potenza, ma è una capitolazione senza riserve ai dominanti. Il principio fondamentale che viene messo in atto è “se vuoi convivere con noi, rinuncia a essere te stesso”. È chiaro che se l’Europa non vuole la Russia, quest’ultima prenderà da sola il largo nel mare della politica internazionale.
Il suo “Prima che il mondo fosse. Alle radici del decisionismo novecentesco” vede tracciare un’analisi filologica, la genealogia per l’appunto del decisionismo novecentesco. A chi è destinato e cosa vuol spiegare esattamente questo saggio?
Il saggio è una mia disamina filosofico-politica sulla genesi del decisionismo, per l’appunto, che Carl Schmitt, il celebre giurista tedesco, ben definisce nella sua opera. A mio avviso, il discorso sul decisionismo che Schmitt imposta delinea accuratamente una teoria giuridica e politica del totalitarismo, che è il fenomeno che secondo me ha dominato il XX secolo, fino alla fine (con la caduta del Muro di Berlino) degli ultimi due esperimenti totalitari: l’Unione Sovietica (il comunismo novecentesco) e lo Stato sociale (come quello impostato dalla terza viademocratico-cristiana in Italia). La mia analisi, che adesso non spiego nell’interezza, adottando da un lato il metodo della ricerca filologica dei rimandi letterari e dall’altro quello della teologia politicadi Schmitt, giunge a trovare la radice del decisionismo novecentesco nella teologia apofaticadei Padri della Chiesa. Al di là del taglio molto specialistico del saggio, credo vi sia un messaggio che può essere profondamente attuale nel testo, dato che ogni opera, comprese quelle di finzione letteraria, interroga l’epoca in cui è stata prodotta: il totalitarismo (di destra, di sinistra e di centro) esiste perché il suo perimetro concettuale è stato definito dal liberalismo, che è la “filosofia” (virgolette d’obbligo perché il termine è improprio) del mondo attuale. Di contro, ogni fenomeno totalitario è stato un tentativo di contrapporsi ai principi logici del liberalismo, che oscillavano dal libero mercato al concetto antropologico di individuo. Che le risultanti siano state drammatiche, e molto spesso questi fenomeni siano stati accusati di inautenticità da alcuni dei suoi precursori (penso al rapporto di Heidegger col nazismo, o quello critico di Lukács nei confronti del Patto di Varsavia), non toglie che i problemi teorici affrontati – per l’appunto – dai suoi precursori siano ancora validi. È nel solco di un certo tipo di critica che bisogna ragionare, senza doversi sentir ricordare gli orrori del gulag ogni qual volta si critica libero mercato. L’altro insegnamento del libro è di segno opposto invece: il totalitarismo è un fenomeno politico di risposta al liberalismo che nasce in un contesto specifico, quello dell’era fordista. Ad oggi, e per fortuna, è irripetibile, e bisogna immaginare un nuovo orizzonte di opposizione al liberalismo che sia ancora più radicale nell’approfondimento delle radici filosofiche e antropologiche del problema. Inviterei chi crede che la retorica gradassa di certa destra populista sia l’opposto del liberalismo a considerare invece le politiche di questi partiti in tema di libero mercato e dominio del privato (non delle famiglie, della società e della comunità) sul pubblico.
Cosa pensa degli accordi Italia-Cina con la Via della Seta?
Credo che sia una grande opportunità per l’Italia per due ordini di motivi: il primo è chiaramente economico, relativo alle possibilità di esportazione e di ampliamento del mercato per i prodotti nazionali; il secondo, più importante, se possibile, è di carattere politico, ed è relativo all’indipendenza decisionale e alla cooperazione a un progetto di pace e distensione dei rapporti internazionali promosso dalla Cina. È molto positivo che l’Italia abbia scelto di aderire a questo progetto bypassando le imposizioni degli USA, che d’altro canto sono un Paese in retrocessione mondiale in questa particolare fase storica, e dimostra con questo un briciolo di sovranità. A causa di questa retrocessione degli USA a cui abbiamo accennato, si apre la possibilità di impostare i rapporti internazionali sulla base del principio, promosso dalla Cina, del multipolarismo, di cui la non-ingerenza e i rapporti pacifici di cooperazione e sviluppo dovrebbero essere i fondamenti. Per far questo però è necessario che l’Europa ritrovi la sua unione, perché sul tavolo del mondo multipolare si può giocare solo con la dimensione del grande spazio geopolitico. L’Italia, al solito, risulta essere anni indietro in tutti i processi, per cui quando rischiava di perdere tutto dall’unità europea, ne è stata grande fautrice e sostenitrice, e adesso che l’ora della storia suona per una grande unità europea, militarmente e politicamente sovrana, i “sovranisti” all’amatriciana preferiscono il caos europeo e l’abbraccio degli Stati Uniti.
Negli ultimi 20 anni l’Europa era stata vista come una speranza da USA e Russia. La famiglia Bush era legata per tradizioni all’Europa, Clinton vi ha studiato. Per Obama era un punto qualsiasi nel mondo, mentre per Trump è un elemento di concorrenza. Stessa evoluzione per Putin. Certo l’attesa delle due potenze per l’indebolimento dell’Europa è forte. Cosa ne pensa di questo scenario?
Il fatto fondamentale è che, dalla Guerra fredda in poi, l’Europa è stata un vero e proprio campo di battaglia per i destini del mondo, e il ripensamento dei rapporti tra i due schieramenti (Est e Ovest) dopo la caduta della Cortina di ferro ha visto perpetrarsi il ruolo centrale del nostro continente. Già Heidegger diceva che la nascita di una terza forza europea avrebbe scardinato il conflitto bipolare USA-URSS (cosa che avverrà per medesime ragioni con l’ascesa della Cina al rango di potenza). Il problema si pone nel momento in cui due modelli di organizzazione del mondo, quello unipolare da parte degli USA e quello multipolare da parte di Russia e Cina, divengono due tendenze conflittuali in Europa. L’Europa è nata sotto l’egida americana e l’ombrello della NATO, e per questo il partito dell’unità politica del continente non si è mai affermato, a vantaggio di quello cosiddetto funzionalista, dell’Europa del mercato unico ma delle politiche nazionali divise. Il multipolarismo politico, che è una tendenza in crescita, invece abbisogna di un’Europa come spazio politico sovrano e indipendente. Se le amministrazioni Clinton e Bush vedevano nell’alleanza transatlantica un obiettivo principale a livello politico, sempre in ottica di contenimento della Russia e balcanizzazione dello spazio post-sovietico, Obama e Trump hanno fatto tesoro degli insegnamenti relativi alle grandi direttrici della geopolitica: l’Europa unita rappresenterebbe un partner quasi naturale per la Russia, sebbene distinto da essa. L’obiettivo diventa quindi quello di sfaldare le possibilità di coesione, continuando a gestire rapporti economici vantaggiosi e la presenza militare sul continente. Ad oggi però l’ascesa della Cina sembra contrastare questo progetto. Il punto è che l’Europa, finché continuerà ad essere un buco nero geopolitico, inconsistente dal punto di vista di volontà politica e visione strategica, sarà sempre relegata ad essere un pavido spettatore della storia.
Per tornare a una dialettica destra-sinistra ci vorrebbe una nuova governance europea?
Personalmente non credo alla funzionalità del discorso sulla destra e la sinistra. Senza dubbio la destra e la sinistra storiche sono stati grandi aggregati di idee e identità politiche con una loro dignità e un loro valore intrinseco, ma peccano di una mancanza fondamentale: l’assenza di una chiara descrizione della loro natura. Ad oggi, coloro che difendono la sussistenza di termini come “destra” e “sinistra” continuano a descrivere la fazione opposta con il bagaglio ideologico della propria tradizione politica (che peraltro è varia e conflittuale al suo interno; chiedete a un sostenitore del PD e a un comunista contemporaneamente cosa intendano per “destra”…), descrizione che non è poi condivisa dall’altra parte. Rimangono pure le categorie di Bobbio, ma anche quelle sono ampiamente superate, o quelle di Popper, utilizzatissime dalla sinistra contro la destra, senza ricordare che Popper stesso le aveva create innanzi tutto come strumento anticomunista. A ben vedere, le contraddizioni della grande politica non sono mai di destra o di sinistra, checché ne dicano i revanscisti e i rievocatori delle idee politiche storiche. La lotta di classe, ad esempio, lo “spettro” che ha mosso in avanti la storia del mondo, è una chiara divisione tra gruppi e interessi contrapposti, e non di alleanze trans-ideologiche descritte sotto la voce di “sinistra”. Nel nostro momento storico non c’è più bisogno sotto nessun aspetto delle categorie di destra e di sinistra, eppure non per questo dobbiamo cadere in una prospettiva antipolitica o post-ideologica. Al contrario, la morte (ormai conclamata, e solo pochi sono rimasti a voler richiamare i morti dai sepolcri) di queste categorie dovrebbe proprio chiamarci a elaborare una teoria del mondo presente e un grande obiettivo politico di trasformazione sociale per il futuro. Il mondo presente è orrendo pressappoco per gli stessi motivi per le persone di destra e di sinistra, coloro che ci vivono bene sono quelli che ne traggono i maggiori profitti e ci si spartiscono i dividendi, e costoro hanno identità “di destra” o “di sinistra” molto deboli. La dialettica c’è, non va negata né pacificata, e la fine di destra e sinistra non deve servire per confondere i servi ed i padroni, ma per farla finita definitivamente con un discorso demenziale in cui due etichette non meglio definite impediscono le aggregazioni politiche e le visioni strategiche. Rovescerei la domanda in un’affermazione: è la fine della dialettica tra destra e sinistra che è necessaria alla costituzione di un nuovo governo europeo. Non governance come semplice amministrazione burocratica, ma governo come capacità di proiezione politica e coerenza decisionale.