Nel 2009, Michael Francis Moore presenta l’ultimo dei suoi film documentario dal titolo “Capitalism: a love story”. Un titolo che sembrerebbe promettere rose e fiori, se non fosse per l’ umorismo del buon regista di Flint che, armato della determinazione di mettere a nudo le contraddizioni del sistema economico e politico a stelle e strisce, dà vita ad una storia capace di tenere lo spettatore incollato al televisore tranquillamente per tutta la sua durata.
Con un ritmo incalzante, il regista offre delucidazioni e spunti su derivati, crisi del paese, storie di vita riguardanti aziende che si arricchiscono grazie a polizze assicurative sui dipendenti o di persone che, inghiottite da debiti e risucchiate dal vortice della menzogna, vedono pignorarsi la casa da un giorno all’ altro. Tra le tematiche riguardanti il sistema bancario, Moore si sofferma anche su una questione molto cara agli studenti: la bolla universitaria.
Cerchiamo di capire di cosa si tratta.
Negli Stati Uniti, più dell’ 80% degli studenti frequenta università pubbliche. Gli immatricolati, così come i colleghi delle università private, tendono ad indebitarsi nei confronti delle banche per sostenere il percorso di studi. Ovviamente, nette differenze di costi sussistono tra università pubbliche ed università private: per le prime, in media, lo studente si accolla un debito di 20000$; per le seconde si va dai 45-50000$ ai 65000$ per entrare nella casta della Ivy League.
Costi esorbitanti per sostenere un percorso di vita che dovrebbe portare ad una svolta positiva del singolo, e che invece fa contare un numero di studenti indebitati pari a 40 milioni (2/3 della totalità), per un ammontare complessivo di più di mille miliardi di dollari (più di 25000$ di deficit pro capite).
Facile evincere che ci si trova dinanzi ad un problema intrascurabile. Per capire meglio le proporzioni, dati alla mano, scopriamo che dalla fine degli anni ’70 ad oggi la bolla universitaria ha contato un aumento di 650 punti rispetto all’ inflazione. Un incremento che, negli ultimi anni, non ha conosciuto eguali (superando quelli dei prestiti ipotecari e dei mutui).
Moore ci presenta amaramente i risultati di questa “piaga”: la maggior parte degli studenti laureati (quelli che non rappresentano il 7,8% dei disoccupati) finisce per lavorare a Wall Street, avendo probabilmente iniziato ad investire in borsa già durante gli studi. Rappresenta, infatti, il modo più probabile di essere remunerati adeguatamente in maniera tale da poter ripagare il debito prima degli eventuali venti anni di “prigionia”, a dispetto del desiderio di diventare medici o del tasso di disoccupazione che nell’ ultimo anno è sceso al 5,6%, con 2,95 milioni di persone che hanno trovato impiego.