L’esistenza dei campi di lavoro nella Nord Corea di Kim Jong-Un sembra essere intrappolata in uno strano limbo informativo – salvo quando, raramente, una voce come quella di Shin Dong-Yyuk emerge per testimoniarne la cruda brutalità, fugando ogni possibile dubbio. Da una parte nessuno è al corrente di quante migliaia o milioni di detenuti siano rinchiusi nei campi – non ufficialmente riconosciuti dal governo Pyongyang sino a solo qualche settimana fa – e scarse sono le informazioni a disposizione circa cosa vi accada esattamente all’interno. Dall’altra è relativamente facile osservarne la proliferazione sul territorio nord coreano dalle immagini satellitari, dalle quali sono oramai così chiaramente osservabili da essere disponibili anche su Google Maps.
In questo articolo tenteremo di rompere l’impasse, sintetizzando le poche informazioni rilevanti sui campi di lavoro, giunteci dal regno eremitico nord coreano: come funzionano, chi vi viene rinchiuso, e come sia possibile che tali mostruosi abusi dei diritti umani siano ancora in atto.
Quattro, secondo le stime ufficiali, sembrano attualmente essere i campi di lavoro attivi in Nord Corea – complessi, delle dimensioni di una cittadina, che si estendono irregolarmente nelle fredde regioni a nord del paese. La maggior parte dei detenuti vi vengono inviati a scontare pene “ergastolane” per aver commesso offese minori, o per la condotta imprudente dei propri parenti. Questi vengono sottoposti a lavori forzati, torture quotidiane e malnutrizione, dietro la costante paura di esecuzioni arbitrarie – condizioni talmente miserabili che la maggior parte di loro non sopravvive oltre i 45 anni di età (vedi le illustrazioni di Kim Kwang-il, un detenuto superstite dei campi di lavoro, raccolte dalle Nazioni Unite).
Illustrazioni tratte da UN High Commissioner for Human Rights