L’Economia della Schiavitù nel XXI Secolo: Quando Povertà e Profitto S’Incontrano

Il processo d’integrazione globale delle economie nazionali, coinvolgendo anche i mercati del lavoro nella promozione di una libera circolazione del capitale umano, ha innegabilmente generato molte nuove opportunità per imprese e individui – una dinamica che, tuttavia, non è risultata favorevole a tutti.

Secondo l’analisi del report 2012 della International Labour Organisation (ILO), attualmente circa 21 milioni di uomini, donne e bambini “sono oggetto di traffico […], vengono detenuti in stato di “servitù debitoria” o in condizioni simili alla schiavitù” – la vasta maggioranza dei quali, oltre il 90 percento, viene sfruttata nel settore privato. Sebbene  “in alcuni paesi – prosegue il report dell’ILO – il ‘lavoro forzato’ imposto dalle autorità statali costituisca tutt’ora una questione urgente […] le nuove stime confermano che [questo fenomeno] è in declino in quanto a rilevanza […], l’enfasi si è ora spostata verso la risoluzione dei problemi connessi al ‘lavoro forzato’ e la tratta di esseri umani nell’economia privata, spesso in relazione alla criminalità organizzata.

In questo senso, le risposte istituzionali a tali ignominie, tenuto conto dell’essenzialità di una potente pressione normativa, non possono prescindere dalla comprensione delle cause socio-economiche che tutt’oggi le alimentano – una su tutte, la possibilità di trarne un profitto. La redditività della schiavitù – per quanto cinico possa risuonare l’accostamento di queste due parole – è stata una delle questioni più controverse nella ricerca della storia economica. “Un dibattito […] che è in corso, in una forma o nell’altra – scrive l’economista Thomas Gowan nel 1942 – da almeno 150 anni.”